Meriggiare pallido e assorto è una poesia scritta da Eugenio Montale nel 1916 e costituisce probabilmente la più antica composizione all’interno della raccolta “Ossi di seppia”. Il poeta rinuncia al linguaggio eroico e altisonante tipico della tradizione poetica precedente e usa un linguaggio “scabro ed essenziale”. Come sottolinea Natalino Sapegno nel suo “Compendio di storia della letteratura italiana, vol. 3”, qui Montale rifiuta il linguaggio decorativo, usa forme anti-letterarie, facendo uso di un linguaggio aderente alle cose, lontano da ogni vaghezza, e allo stesso modo lontano dalla prosa. L’attenzione ai suoni è fondamentale in questa poesia: le allitterazioni riproducono perfettamente la sensazione di asprezza che il poeta vuole comunicare.
Avvicinandoci al contenuto del testo, vorremmo riprendere alcune considerazioni in merito alla poesia in generale fatte dal critico inglese Terry Eagleton. Una caratteristica della poesia, secondo Eagleton, è che porta con sé una “dichiarazione morale” (“How to read a poem”, Blackwell Publishing 2007). Ma cosa significa “morale”? Il termine, comunemente, “suppone un problema”, è legato al concetto di giustizia, di “comportamento civile”, definisce cosa si può fare e cosa non si può fare. Il critico, tuttavia, ci avverte che il significato tradizionale della parola non è un contrario di “immorale”, ma di “storico”, “filosofico”, “scientifico”. I moralisti sono interessati dunque agli obiettivi delle azioni umane, ai valori che si trovano alla radice di una decisione. E questo è l’oggetto della poesia: il suo campo di indagine sono “valori, significati e scopi umani”. Quindi potremmo considerare come un contrario di morale, continua Eagleton, il termine “empirico”, cioè oggettivo. Un’affermazione empirica, infatti, parla di ciò che accade, senza attribuirgli un valore particolare. È una semplice descrizione della realtà. A volte il confine tra empirico e morale non è molto netto: ci sono infatti opere che sono una miscela dei due casi come il “De rerum natura” di Lucrezio o le “Georgiche” di Virgilio. Ci sono anche alcuni studiosi che credono che le affermazioni morali abbiano lo stesso livello di verità e realtà nel descrivere qualcosa che hanno le affermazioni empiriche.
In Meriggiare pallido e assorto, già in questa proposizione, ad esempio, c’è un’affermazione morale: non si tratta di una cronaca di un pomeriggio, ma l’autore attraverso gli aggettivi “pallido” e “assorto” esprime dei sentimenti. L’intera poesia si configura come una dichiarazione morale. Infatti, la descrizione dell’attraversamento di questo paesaggio di campagna durante il periodo estivo si sviluppa attraverso verbi coniugati all’infinito che annullano l’io lirico, creano una sospensione temporale e descrivono un’esperienza di sbarramento e impossibilità di superare un limite. È interessante notare che l’osservazione del paesaggio da parte del poeta, grazie all’uso di un lessico botanico e zoologico, è di suggestiva concretezza. È una descrizione dell’inquieta vitalità della natura e una ricerca dei suoi segreti. Gli oggetti della natura hanno un valore simbolico, parlano, esprimono valori e suscitano emozioni: il paesaggio è arido e secco, aspro come il linguaggio dell’autore, e rispecchia la condizione umana così come l’ultima immagine del testo, il muro, è simbolo del limite dell’uomo, della sua possibilità di conoscersi e conoscere, è l’emblema della sua finitezza. La vita è una “muraglia” con sopra dei pezzi di vetro, un’immagine che soltanto attraverso la descrizione essenziale di un oggetto riesce a trasmettere una sensazione molto potente di drammaticità e tragicità. Dunque, in qualche modo anche qui, empirico e morale si mescolano e il primo è fondamentale per lo sviluppo del secondo.
Copertina del libro “How to read a Poem” di Terry Eagleton (2007)

Eugenio Montale (1896 – 1981)
Eagleton, tuttavia, specifica che la differenza che vi è tra empirico e morale non è la stessa che vige tra “realtà” e “finzione”. Non tutte le affermazioni morali sono fittizie: quelle vere che appartengono al mondo reale sono reali. Le poesie trattano di “verità morali […] in modo fittizio”. Ciò significa che non dobbiamo considerare ciò che è scritto in una poesia come una “situazione di vita reale”. Dobbiamo, invece, riconoscere che c’è una distanza tra il testo e il suo “contesto empirico immediato”, cioè dobbiamo “romanzare”.
La poesia, una volta scritta, non è più legata al suo contesto originario e per questo porta con sé la possibilità di non essere compresa e pensata in un solo modo. Ciò non significa che un testo scritto possa essere interpretato secondo qualsiasi punto di vista, ma che per sua stessa natura ha più interpretazioni. Una poesia è un testo che si caratterizza per essere intelligibile a tutti, anche se è destinato a una persona in particolare: parla di una situazione che non tutti potrebbero aver vissuto e di un luogo che non tutti hanno visto.
Quindi Meriggiare pallido e assorto può essere compreso da tutti coloro che non hanno mai visto il paesaggio descritto o un paesaggio simile. Né importa che il poeta abbia davvero vissuto il momento preciso che racconta. Chiaramente in questo caso sembra strano che non sia così, ma non è comunque ciò che conta. Eagleton ci ricorda poi che “finzione” non è sinonimo di “immaginario” e nemmeno falso. In effetti, la parola finzione deriva dal verbo latino fingo che significa modellare, creare.
Eagleton, seguendo Aristotele, sottolinea che il poeta e gli scrittori in generale hanno un ruolo diverso dagli altri studiosi. Se gli storici narrano le cose come sono accadute, i poeti raccontano le cose come potrebbero accadere o avrebbero potuto verificarsi. E a volte le poesie sono più fedeli alla realtà, perché piene di tutte le emozioni e i sentimenti umani in altre narrazioni non trovano spazio.
L’elemento cardine della poesia è certamente il linguaggio, che molte volte prevale sul significato del testo. E spesso, dice il critico, il linguaggio “dirige l’attenzione su se stesso”, cioè il linguaggio prevale sul significato della poesia. Quindi la poesia è un testo scritto in cui viene mostrato l’uso del linguaggio. Ma questo non è il caso della nostra poesia, che piuttosto rifiuta il linguaggio pieno di orpelli e la sua forma serve a rendere più chiaro il significato. Montale rifiuta le forme difficili, una sintassi complessa, prediligendo invece una poesia chiara e semplice, almeno nella forma. La lingua dello scrittore genovese è una lingua che cerca di avvicinarsi il più possibile alle cose, come se volesse che parlassero da sole. La poesia necessita di un uso speciale della forma e della parola. La poesia, come dice Montale in un’intervista, è un’emozione breve che richiede una verticalità della parola.
Giulia Novelli