Immagina di essere in un giardino fiorito e illuminato dal sole: cammini lentamente mentre il profumo degli aranci e delle zagare ti stordisce e all’improvviso non sei più solo. Ti trovi sotto un iridescente lampadario di Murano, davanti a posate d’argento in perfetto ordine e a un via vai di pietanze segrete su imponenti vassoi. In religioso silenzio tutti aspettano…e aspetti anche tu.
Poi finalmente, come ogni anno…
“Quando egli entrò in sala da pranzo tutti erano già riuniti, la Principessa soltanto seduta, gli altri in piedi davanti alle loro sedie. E davanti al suo posto, fiancheggiati da una colonna di piatti, si slargavano i fianchi argentei dell’enorme zuppiera col coperchio sormontato dal Gattopardo danzante”.
Proprio così, perché “la cena, a Villa Salina, era servita con il fasto sbrecciato che allora era lo stile del Regno delle due Sicilie.” E ogni banchetto lì allestito sarà ricco e sontuoso.
Frame da “Il Gattopardo” di Luchino Visconti (1963), ispirato all’omonimo romanzo
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Ma che cosa si è mangiato esattamente in quel lontano maggio del 1860? Stiamo per scoprirlo in queste poche righe. E chi invece ha letto il capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si starà sicuramente già leccando i baffi.
Si presenta così, con una nonchalance ineguagliabile, il famosissimo timballo di maccheroni:
[…] “L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.” […]
Ancora più noto, è però il menù della serata del ballo che i cuochi “delle vaste cucina avevano dovuto sudare fin dalla notte precedente per preparare”, e in particolare il dessert, su cui lo scrittore siciliano si concentrerà minuziosamente, descrivendo delicatamente anche le reazioni di coloro che lo degustano: il “Trionfo della Gola”.
Ma andiamo con ordine. Varchiamo ancora una volta la soglia del salone di Donnafugata e diamo una sbirciatina al buffet con le parole di chi, prima e meglio di noi, lo ha saputo raccontare:
“coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immerse nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, i pasticci di fegato grasso rosei sotto le corazze di gelatina, le beccacce disossate recline su tumuli di crostini ambrati […] le galantine color d’aurora. […]
Claudia Cardinale e Alain Delon nel film “Il Gattopardo” (1963) di Luchino Visconti
Donna Margherita è però come noi attratta dal piano dei dolci… “Lì immani babà sauri come il manto dei cavalli, Monte Bianchi nevosi di panna, beignets Dauphin che le mandorle screziavano di bianco e i pistacchi di verdino, collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dal quale, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits rosei, parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e “trionfi della gola” col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche “paste delle Vergini” […] le mammelle di S. Agata”.
I riferimenti gastronomici sono tantissimi in questo romanzo, che, lungi dall’essere un libro di cucina, risveglia l’acquolina e designa il cibo come elemento culturale imprescindibile legato a specifiche identità. La Sicilia, si sa, è e fu terra di mezzo, crocevia e perla del Mediterraneo. Molti sono i popoli che l’hanno attraversata e che hanno forgiato la sua tradizione secolare: Arabi, Fenici, Greci, Spagnoli, Normanni.
Copertina della prima edizione Feltrinelli de “Il Gattopardo”
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Tra questi, l’influsso arabo si nota non solo nella cucina, ma anche nella lingua – soprattutto in alcuni toponimi come “ Val di Noto” o “Vallo di Mazara”(uno dei tre valli in cui la dominazione musulmana divise la Sicilia) – nell’architettura e nelle credenze popolari.
Per restare in tema, un aneddoto curioso vede protagonista proprio un utensile da cucina, questa volta però utilizzato non per la cottura di manicaretti, bensì per nascondere del denaro. Circolano in Sicilia parecchie storie, tramandate oralmente di padre in figlio, riguardo denari incantati e ritrovati: storie di “truvature”, che risalgono al dominio arabo in Sicilia. Infatti, il termine siciliano “attruvatura o truvatura” indica la scoperta di un tesoro nascosto da molto tempo.
Si dice che le leggende delle “truvature” sarebbero nate a seguito di ritrovamenti reali di tesori nascosti dagli stessi siciliani nei muri delle case antiche o sottoterra, durante le numerose invasioni. Il contenitore del tesoro era solitamente una grossa “quarara”, cioè una pentola di rame. Questa pratica della “truvatura” era seguita anche nel mondo greco-romano, dove la pentola però veniva chiamata “aulŭla”, come ci testimonia una nota commedia di Plauto.
E se è vero che per far sì che tutto resti com’è “bisogna che tutto cambi”, speriamo almeno che nulla sia cambiato “nella sala odorosa di vaniglia, di vino, di cipria” dove a tavola siamo stati in compagnia di Don Fabrizio, detto il Gattopardo.
Alessandra Busacca