“Adú” è un film del regista spagnolo Salvador Calvo, uscito nelle sale nel gennaio 2020, che racconta il dramma dei rifugiati. Adú è il nome del bimbo camerunense di sei anni protagonista della storia e non è un caso che il titolo del film sia un nome proprio. È come se, fin dall’inizio, il regista ci volesse avvertire che questa storia, che è una delle milioni di storie del genere, è una storia personale, è una storia che ha dei volti, delle parole, è una storia che ha una storia, scusate il bisticcio.
In altri termini, l’avvertimento è “guarda che stiamo raccontando una storia reale, una storia vera, qui non si parla di numeri e cifre” e in effetti questo è proprio il punto centrale del film: mostrare, scoprire quei numeri che spesso sentiamo citare nei telegiornali da voci asettiche con pause prevedibili: “Migranti…in 250 oggi sono sbarcati al porto di Lampedusa”, svelare chi c’è dietro e dare un significato a parole come “tortura”, “scappare”, “attraversare”, “perdere”.
Fotogramma tratto dal film
La storia di Adú è una storia oggettivamente cruda, fatta di perdite continue, prima la casa, la mamma, poi la sorella Alika, con la quale scappa dal Camerun a bordo del carrello di un aereo, poi il nuovo amico più grande Massar.
Le vicende di questi due bambini si intrecciano e questo incontro, pur avvenuto nel corso di peripezie dolorose, è un incontro che rafforza entrambi, è un incontro gioioso, nonostante l’odissea che devono compiere, è un incontro che dà speranza e che contiene in sé una promessa di futuro.
Tuttavia, la narrazione del film non è incentrata esclusivamente su Adú, ma si articola in altre due storie vicine e distanti.
Una storia si svolge a Melilla, una delle due città enclave spagnole in Africa. È una città speciale, perché è spagnola, pur essendo in certa misura autonoma, ma si trova in Marocco e proprio lì c’è una barriera tra i due continenti, Africa e Europa. Questa barriera è un muro, il primo muro ad essere eretto in Europa, tra l’altro a spese dell’Unione Europea, dopo la caduta di quello di Berlino. La storia ambientata a Melilla è una storia di abusi compiuti dalla Guardia Civil spagnola nei confronti dei migranti. Vi segnalo, a proposito della città di Melilla e del suo muro, il bell’articolo di Valentina Furlanetto: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/melilla-la-citta-muro-che-divide-africa-e-europa-24334.
Muro di Melilla
[fonte: https://www.ispionline.it/]
La terza storia racconta di un viaggio al contrario rispetto alle prime due: descrive, da una parte, un viaggio dall’Europa all’Africa, compiuto da un uomo facente parte di una ONG che protegge gli elefanti dal bracconaggio, e, dall’altra, il viaggio fatto dalla figlia di quest’attivista che lo raggiunge per allontanarsi dalla sua quotidianità madrilena, comoda e confortevole, ma fatta di droga. L’Africa è quindi anche il posto in cui c’è la possibilità di ritrovarsi e forse di cambiare.
Credo che il film sarebbe stato in piedi saldamente anche senza questa storia, ma è probabile che il regista abbia voluto offrire uno sguardo plurale sul continente africano, non mostrandolo solo come luogo di dolore, ma anche come luogo di riappacificazione, tra padre e figlia, e anche di vivacità.
Per concludere, è un film commovente, scenograficamente bello e luminoso, e che porta con sé una critica sociale possente e coraggiosa. Super consigliato.
Giulia Novelli