Il film “Partner” di Bernardo Bertolucci è stato distrutto pienamente dalla critica dell’epoca. L’anno di uscita della pellicola era il 1968, un periodo di contestazione in tutti i sensi: politico, estetico e sociale.
La rivoluzione sessantottina è ripresa da Bertolucci con tutte le sue luci e ombre, fino ad arrivare addirittura a ridimensionarne il mito. “Partner” è lo specchio dei sogni, delle illusioni, dei nuovi linguaggi, notamente divenuti poi slogan, dello stesso ’68.
La trama è profondamente ispirata a quella del libro “Il sosia” di Dostoevskij del 1846. Si tratta della storia di Jacob (Giacobbe nella pellicola di Bertolucci), professore all’Accademia dell’Arte Drammatica di Roma e paradigma dell’intellettuale frustrato che sogna la rivoluzione senza però riuscire a metterla in pratica nei propri progetti di vita. Giacobbe un bel giorno incontra un suo sosia, in tutto e per tutto simile a lui nell’aspetto, di cui decide di servirsi per realizzare le sue aspirazioni rivoluzionarie. A poco a poco però il sosia comincia a sostituirsi a lui, compiendo al suo posto quelle azioni di cui il vero Giacobbe si sente incapace, traducendo ogni parola in azione e ogni sconforto in esplosioni di violenza, arrivando addirittura a commettere due omicidi.
Locandina del film “Partner” di Bernardo Bertolucci (1968) |
Se però nel romanzo di Dostoevskij l’incontro con il doppio si rivela conflittuale e alla fine il sosia riuscirà a prendere il sopravvento sull’altro e a usurparne il ruolo, nell’opera di Bertolucci, diversamente, i due Giacobbe sono in armonia, se non altro sul piano professionale.
E’ da notare poi che il nome Giacobbe ha un’etimologia interessante per spiegare il carattere del personaggio, in quanto deriva dall’antico ebraico aqueb (“tallone”) e significa “il soppiantatore”.
Il racconto biblico (Genesi 25, 26) narra, infatti, di come Giacobbe, al momento della nascita, riuscì a sottrarre con l’inganno la primogenitura al gemello, trattenendogli con la mano il calcagno.
Il tema del doppio è centrale in questo film di Bertolucci ed esplicitamente segnalato sia registicamente con lo sdoppiamento della camera da presa sia da sparsi indizi nella pellicola e dall’incipit, in cui vediamo Giacobbe intento a leggere un testo di Antonin Artaud del 1938, “Le Théâtre et son double”.
In Bertolucci infatti sono numerose le citazioni attinte dall’universo di riferimento di Dostoevskij, da quello di Antonin Artaud e da quello di Jean-Luc Godard. E c’è una sorta di lotta intrinseca di Bertolucci con queste autorità intellettuali, per le quali nutre grande stima ma dalle quali vorrebbe contemporaneamente distanziarsi. Egli ritiene, ad esempio, che l’imitazione nell’arte non possa essere una replicazione perché la représentation ne duplique rien come dirà anche Jacques Derrida. E per questa ragione il film, come tutte le rappresentazioni, è un doppio che non può essere semplicemente replicato. Significa che per Bertolucci il doppio, la copia, è insito indissolubilmente nel cinema stesso e indica anche il rapporto che esso instaura con i suoi fruitori. Il cinema mette in scena molteplici soggetti in tensione fra loro, ad esempio il regista con la sua idea e le sue intenzioni e lo spettatore che ha anch’egli la sua propria visione.
Sembra che non esista una realtà universale, ma solo dei punti di vista. E il punto di vista di Bertolucci si forma su un equilibrio instabile. Da un lato egli vuole affermare il suo desiderio di creare un film che possa essere un mezzo allo stesso livello espressivo del teatro, quasi un doppio del teatro, ma allo stesso tempo si rende conto che ciò non è possibile.
In “Partner” c’è una scena dalla grande potenza simbolica in cui i due personaggi, i due Giacobbe, ripetono per quindici volte la parola théâtre come per evocare questo concetto, ma alla fine si sente in lontananza la parola cinéma.
Un altro tema importante è quello del sogno, visto da Bertolucci come il doppio della realtà. La magia c’è e si avvera quando non si riesce a distinguere il momento in cui comincia il sogno e finisce la realtà e viceversa. Per Bertolucci osservatore e attore sono dunque la stessa cosa, così come sogno e realtà; di conseguenza il doppio c’è, ma è come se finisse per annullarsi in una posizione meta-narratologica. Questa identificazione porta infatti alla fine all’eliminazione del primato di identità dell’originale sull’imitazione, della realtà sul sogno.
Il nostro Giacobbe, così come ogni individuo, presenta una duplicità congenita dovuta alla lotta edipica freudiana tra due autorità, quelle dei genitori, a partire dalle quali si costruisce la frenetica ricerca di un’identità. A proposito di ciò, Bertolucci stesso definirà “Partner” come un film malato, “un film schizofrenico sulla schizofrenia”. Con l’uso di una crudezza disarmante, il film vuole dare spazio anche a temi tradizionalmente considerati dissacratori: così viene data espressione alla libertà sessuale, alle idee di rivoluzione (come ad esempio le proteste contro la guerra del Vietnam) e a quelle contro il capitalismo, di cui la schizofrenia è considerata la conseguenza contemporanea degenerativa. A questo proposito è emblematica la scena della venditrice di detersivi, uccisa dal protagonista dopo averle fatto indossare i pantaloni da uomo e simbolo del capitale. La scena riprende Jean Luc Godard in “Masculin, féminin” (1966) dove Catherine, “fille de Marx et coca-cola”, dichiara la sua interpretazione del sesso nei termini di un prodotto del mercato.
Questa è solo una delle tante citazioni implicite di altri capolavori cinematografici presenti in “Partner”. Tra le altre, ricordiamo l’omaggio di Bertolucci ad Eisenstein con una citazione da “La Corazzata Potemkin” (1925), nella scena in cui si vede sullo sfondo una carrozzina scendere da una scalinata.

evidente riferimento a “La Corazzata Potemkin” di Eisenstein
Così come il doppio dei due Giacobbe, è importante sottolineare che anche la scenografia di “Partner” è frammentata e divisa, specialmente tra interni ed esterni. La camera da letto del protagonista lo rispecchia profondamente: è infatti uno spazio creato per assomigliare a un teatro con una barriera di libri che ricorda il sipario del palcoscenico e dove ogni atto sembra quello drammatico e fittizio di una pièce teatrale.
Vi è dunque un senso di confusione nebulosa tra attore e spettatore che quasi si accavallano.
Non si riesce a dire quando le scene siano frutto dell’immaginazione del protagonista e quando siano realtà narrativa. Il sosia esiste veramente oppure no? Si domandano gli spettatori nel guardare questo film. E se lo domanda anche il protagonista. Spoiler: l’incertezza onirica non sarà mai risolta. La cinepresa passa con velocità da una scena all’altra senza lasciare delle indicazioni al pubblico per comprendere lo sviluppo temporale e spaziale. La trinità aristotelica di tempo – luogo – spazio viene sconvolta. L’inquadratura stessa è emblema di questa frammentazione, poiché viene divisa in due parti da elementi interni alla scena come un muro, un albero, un lampione o una scala, forse proprio quella del Giacobbe biblico, tesa infinitamente al cielo e senza fine.
Alessandra Busacca
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