Mentre stavo pensando alla scrittura di questo articolo mi è venuto in mente un aneddoto di Toti Scialoja raccontato da Umberto Eco. Pare che Scialoja una volta, dopo aver aperto un giornale e averlo letto con interesse, si rese conto che era stato stampato un anno prima. Disdisse l’abbonamento al quotidiano. La colpa probabilmente non era del giornale, ma della società che non era cambiata. Questa è la sensazione che ho parlando di questi temi: molte cose, purtroppo, non sono cambiate, ma proprio per questo forse bisogna parlarne.
Partiamo dall’inizio, dalle parole. Pride è una parola polisemica, presenta infatti due significati. Da una parte, indica l’orgoglio LGBT, orgoglio inteso come la fierezza di assomigliare a se stessi. Si tratta dunque di un’orgogliosa rivendicazione della propria identità a dispetto delle discriminazioni; dall’altra, indica la Pride parade, la parata, la marcia. È preferibile chiamare la marcia semplicemente “Pride” invece di “gay pride”, per essere più inclusivi possibili.
Ma qual è la storia del Pride? Ebbene, è una storia molto recente. Dobbiamo tornare indietro di soli 51 anni, nel 1969, e spostarci a New York.
Erano anni caldi, l’anno prima era stato l’anno delle grandi contestazioni giovanili e sempre nel ’68 erano stati uccisi Martin Luther King e Bob Kennedy.
Gli Stati Uniti erano impegnati nella guerra del Vietnam ed erano appena usciti “Sittin’ on the dock of the bay” di Otis Redding e “Mrs Robinson” di Simon & Garfunkel.
A quel tempo, il quartiere più libertario di New York era il Greenwich Village, a Manhattan. In un bar della zona, gestito dalla mafia, erano soliti radunarsi le lesbiche, i gay e le drag queens newyorkesi. Era lo Stonewall Inn, situato in Christofer Street. La polizia effettuava di frequente incursioni nel locale, provocando la fuga dei partecipanti, e spesso e volentieri ne arrestava qualcuno, colpevole di “indecenza”. Per esempio, chi aveva addosso meno di tre indumenti del proprio sesso era passibile di arresto.
Illustrazione di Maria Marcellino
Una notte di inizio estate, quella del 28 giugno 1969, la polizia fece la sua solita incursione nel locale, ma stavolta, contrariamente alle abitudini, irruppe nello Stonewall Inn a notte inoltrata e non in prima serata. Le cose quella volta cambiarono. I frequentatori del bar non si fecero passivamente arrestare, come avevano sempre fatto, coprendosi il volto in segno di vergogna, ma, a viso scoperto, reagirono e si rivoltarono. La polizia era evidentemente impreparata, poiché abituata alla docilità della comunità omosessuale e trans.
Quella notte dissero: “noi non ce ne andiamo”.
Un aneddoto raccontato da alcuni testimoni di quella notte vuole che gli scontri con la polizia siano iniziati quando la trans Sylvia Rivera si tolse una scarpa col tacco e la scagliò contro la polizia. I testimoni raccontano che la folla in poco tempo si fece sempre più numerosa, la gente del quartiere accorse a sostegno della comunità LGBT. Alcuni ricordano la paura di essere uccisi, altri la rabbia, altri ancora hanno impressi nella memoria la gente in piedi sulle auto e sui cassonetti e l’arrivo di autobus di agenti in tenuta antisommossa.
La folla iniziò a marciare contro la polizia che si vide costretta ad indietreggiare, la gente avanzava mentre la polizia retrocedeva e iniziò in mezzo a quella tensione una canzone che faceva così:
We are the Stonewall Girls, we wear our hair in curls,
We always dress with flair, we wear clean underwear,
We wear our dungarees, above our nellie knees,
We ain’t no wannabees, we pay our Stonewall fees
Manifestazione per i diritti L.G.B.T. con Sylvia Rivera sulla destra
La notte successiva gli scontri si riaccesero e i testimoni raccontano che c’era ancora più rabbia e desiderio di lottare. Esattamente un anno dopo, il 28 giugno 1970, a New York viene indetta una marcia, “The Christopher Street Gay Liberation Day March”, in ricordo dei cosiddetti “moti di Stonewall”. Un partecipante, intervistato dal The New York Times, la ricorda così: “The march was a reflection of us: out, loud and proud”. Questa marcia avvenuta proprio 50 anni fa si può considerare il primo Pride della storia ed è per questo che giugno è il mese dell’orgoglio.
In Italia la prima manifestazione nazionale si è tenuta a Roma soltanto nel 1994, mentre il primo Pride di Milano è stato nel 2001.
Scendiamo un po’ più nel dettaglio e vediamo quali sono gli elementi che costituiscono l’essenza del Pride. Il Pride è una marcia rivendicativa del diritto di essere se stessi, che ha alcuni caratteri peculiari. È allegra, giocosa, come per dire “malgrado i soprusi, le discriminazioni, gli insulti, noi ci siamo e sorridiamo fieramente”. Il simbolo del Pride è infatti un simbolo positivo e pacifico, l’arcobaleno, l’insieme di tutti colori della tavolozza, che sta a significare la bellezza della diversità: ciascuno possiede una luce differente, un’intensità diversa e l’insieme è un risultato armonioso. L’altra caratteristica è la visibilità: si sfila per le vie della propria città a volto scoperto per dire “guarda, sono il tuo fruttivendolo, la tua dottoressa, il tuo avvocato e non cambia niente”.
Il Pride si celebra ancora perché sono ancora troppe le discriminazioni. Basta guardare gli ultimi dati raccolti da uno studio realizzato nel 2019 dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, la European LGBTI Survey. Si tratta di una ricerca compiuta su un campione di 140.000 persone LGBTI provenienti da 30 paesi (28 dell’Unione Europea, più Serbia e Macedonia del Nord). Vediamo alcuni dati relativi all’Italia.
- Il 62% delle persone LGBTI evita spesso o sempre di tenere per mano il proprio partner dello stesso sesso. Negli altri Paesi la media è del 61%.
- Il 32% delle persone LGBTI ha affermato di essere stata molestata l’anno precedente alla ricerca.
- Il 41% afferma che il pregiudizio e l’intolleranza sono aumentati. Negli altri Paesi complessivamente si tratta del 36%.
- L’8% crede che il governo italiano combatta efficacemente il pregiudizio e l’intolleranza contro le persone LGBTI.
- Il 41% dei giovani (18-24 anni) afferma di nascondere di essere LGBTI a scuola.
- Il 33% degli adolescenti LGBTI (15-17 anni), in linea con gli altri Paesi, afferma che la propria scuola si è approcciata in modo positivo alle questioni LGBTI o comunque in un modo equilibrato.
Ne parliamo ancora perché i dati sono molto scoraggianti. Ne parliamo ancora sperando che un giorno leggendo un articolo qualsiasi non ci capiti ciò che è capitato a Toti Scialoja. Ne parliamo ancora sperando che un giorno le azioni individuali e collettive di lotta verso le disuguaglianze non saranno più necessarie. Ne parliamo ancora sperando di non doverne parlare più.
Nel frattempo, marciamo!
Buon Pride a tutti.
Giulia Novelli
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