“Città sola” di Olivia Laing

Se la solitudine avesse una forma sarebbe una stanza vuota in cui nessuno vuole entrare. Infatti, “la solitudine, nella sua forma classica, è per sua natura incomunicabile per chi ne soffre. Né, a differenza di altre emozioni non comunicabili, può essere condivisa tramite l’empatia. È possibile che le facoltà empatiche della seconda persona siano inibite dal sentimento ansiogeno emanato dalla solitudine della prima persona”.

È questo uno dei temi su cui riflette Olivia Laing nel suo romanzo “Città sola”, una peculiare indagine sulla solitudine.  
Il libro prende forma da una vicenda personale dell’autrice: costretta a New York dopo una dolorosa separazione, sola e abbandonata, si interroga sulla solitudine in quanto condizione psichico-sociale. Investiga, inoltre, quella di alcuni artisti che l’hanno preceduta nei quartieri della città, tra cui Andy Warhol, Edward Hopper, David Wojnarowicz.
Trascinandosi tra una biblioteca e l’altra, Laing ci restituisce una New York oscura e sotterranea, sepolta dal tempo. Il suo è un punto di vista frantumato e invisibile, che scruta le ombre della città da una delle tante celle-finestre del reticolato urbano.



Copertina del libro “Città sola” di Olivia Laing,
ed. Il Saggiatore (2018)


“Non piangevo spesso, ma un giorno mi capitò di non riuscire a chiudere le tapparelle e quella volta piansi. Era un’orribile prospettiva che qualcuno potesse alzare lo sguardo e scorgermi mentre mangiavo in piedi i cereali o scorrevo le e-mail, il viso rischiarato dalla luce del computer. Sapevo cosa sembravo. Sembravo una donna dei quadri di Hopper.”

Ed è proprio da quest’ultimo che inizia il viaggio percorso dalla Laing nella storia delle solitudini. Taciturno e misterioso, Hopper ritrae sempre soggetti soli nella chiassosa New York. Nei suoi quadri la folla non compare mai.
All’intervistatrice che cerca insistentemente di farlo sbottonare sulla solitudine espressa nei suoi lavori, risponde: “Bah forse ho ritratto inconsciamente la solitudine della città”, come stizzito dal fatto che le sue tele rivelino di sé molto più di quanto vorrebbe. A sanare le sue risposte è la moglie, sempre presente durante le interviste, che spesso interrompe per riempire gli spazi vuoti e ricucire i buchi di quel suo parlare intermittente.
Tale aspetto, la taciturnità, accompagna sempre i soli e i solitari, e rappresenta uno dei temi fondamentali affrontati nel libro: il rapporto tra solitudine e voce.
Infatti, se l’identità si costruisce attraverso l’altro e la solitudine implica perdere l’integrità dei pezzi che ci compongono, il rapporto con l’altro si stabilisce anche attraverso la voce, che espone a tal punto da poter diventare motivo di vergogna e vulnerabilità. Come succede ad Andy Wharol (non a caso il capitolo a lui dedicato si intitola “Il mio cuore si schiude alla tua voce”).
Warhol, padre della Pop Art, che ha reso la sua immagine un’icona, un prodotto riconoscibile e a tratti disumanizzato, freme in realtà di una fragilità disarmante. Immigrato slovacco, nella prima fase della sua nuova vita americana viene spesso deriso dai compagni di scuola per l’accento e i suoi errori di dizione. Da allora il senso di inadeguatezza lo perseguiterà sempre, tanto che in un’intervista in uno show televisivo del 1965 risponde alle domande del presentatore sussurrandole all’orecchio della modella Edie Sedgwick, che riporta ai telespettatori la voce di Warhol con la disinvoltura da lui tanto desiderata. L’arte di Warhol viene passata al setaccio da Laing, che trova il significato nascosto dietro la sua Pop Art, composta da sequenze di oggetti identici: difendersi dal rifiuto e dalla solitudine attraverso la produzione in serie. “Penso che tutti dovrebbero essere macchine […] Penso che tutti dovrebbero amare tutti”, confessa Warhol.
Presentato come un solitario mondano, che definisce il suo registratore “mia moglie”, a partire dagli anni ’60, l’artista non si presenta mai a una festa senza un dispositivo dietro il quale nascondersi (un registratore, una videocamera o una Polaroid). É il suo modo per proteggersi e creare uno spazio tra sé e gli altri.



Capitolo di “Città sola” dedicato a Andy Warhol
e intitolato “Il mio cuore si schiude alla tua voce” 


Le macchine, però, non sono gli unici oggetti in grado di generare distanza. Ce ne sono degli altri, con cui siamo stati costretti a familiarizzare di recente: le maschere.
“Cos’hanno in comune la maschera e la solitudine? La risposta ovvia è che alleviano il peso della visibilità, di mostrarsi, – concetto espresso in tedesco dalla parola Maskenfreiheit: ‘la libertà concessa dalla maschera’ ”.
Chi ha intuito il potere alienante e liberatorio della maschera è David Wojnarowicz, altro artista solitario protagonista di “Città sola”.
Segnato da un’infanzia di abusi e violenze, alla fine degli anni ‘70 David realizza un progetto fotografico chiamato Arthur Rimbaud in New York.
Wojnarowicz fotografa amici e amanti facendo loro indossare una maschera di Rimbaud a grandezza naturale, ritraendoli negli anfratti più squallidi della città.
David e Rimbaud si muovono tra i casali abbandonati che cadono a pezzi, nei battuage della città. Sullo sfondo di questi spazi invisibili si staglia la maschera sempre uguale di Rimbaud, che conferisce così ulteriore staticità a luoghi già di per sé immobili, esasperandone il sentimento di solitudine e desolazione.
Caratteristica messa in risalto dalle parole di Tom Rauffenbart, che sulla serie Arthur Rimbaud in New York scrive: “La maschera di Rimbaud, anche se presenta un volto vuoto e immutabile, sembra sempre osservare e assorbire scene ed esperienze. Ma alla fine rimane sola”.



Fotografia del progetto di Wojnarowicz “Arthur Rimbaud in New York”


Per di più, la scelta di Rimbaud non è casuale. Le vite di Wojnarowicz e del poeta francese, infatti, sono segnate da più di una somiglianza: l’infanzia violenta, la familiarità con le periferie della città, l’omosessualità.
Da quest’ultimo tema, l’omosessualità, Laing si serve per spostare la lente della sua indagine su un altro motivo di isolamento molto comune nella New York di David Wojnarowicz e Andy Warhol: l’AIDS.
Sono gli anni ’80 e del nuovo virus, noto anche come “il cancro dei gay”, non si conoscono né l’origine né le cause di trasmissione. Ciò fa sì che la diagnosi dell’infezione porti con sé una doppia sentenza: la morte e la desolazione assoluta.
Dell’emarginazione e del timore dell’isolamento sociale di cui soffrono i malati di AIDS e soprattutto gli omosessuali, si legge anche tra gli scritti di Warhol, che il 4 novembre 1985 annota sul suo diario: “Non mi sorprenderei se iniziassero a spedire i gay nei campi di concentramento”.
In tali circostanze di fobia e confusione, chi riesce a dare speranza ai malati stigmatizzati è il movimento ACT UP, acronimo di “Coalition to Unleash Power” (Coalizione AIDS per scatenare il potere), la cui trattazione occupa la parte finale del romanzo. Caso vuole che uno degli slogan di ACT UP sia “I’ll never be silent again”, ancora una volta a dimostrare come la voce possa essere un antidoto alla solitudine. Infatti, l’azione del movimento ha liberato i malati di AIDS dalla città cinta di paura e omertà in cui erano confinati. Ed è riuscita nel suo intento proprio grazie a una moltitudine di voci, tra cui non poteva mancare quella di Wojnarowicz, unitosi al gruppo poco dopo la sua diagnosi.
La lotta di ACT UP è un esempio di solidarietà e un invito a prendersi cura gli uni degli altri, così come la riflessione finale dell’autrice, volta a ricordarci che siamo tutti fragili e temporanei:
“La solitudine è personale, ed è anche politica. La solitudine è una città. E non ci sono regole su come abitarci, e non bisogna provare vergogna, basta ricordarsi che la ricerca della felicità individuale non travalica e non ci esime dai nostri obblighi reciproci […] Ciò che conta è la solidarietà. Ciò che conta è essere vigili e sempre aperti, perché se abbiamo imparato qualcosa da chi ci ha preceduto, è che il tempo dei sentimenti non dura per sempre.”

Maria Marcellino

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