Diogene di Sinope, il “Socrate pazzo”: l’autosufficienza e l’indipendenza del sapiente

Alla fine del IV sec. a.C. il Peripato, la scuola fondata ad Atene da Aristotele, con alla guida Teofrasto attirava un gran numero di studenti e le varie versioni del platonismo continuavano ad essere discusse molto vivacemente all’interno dell’Accademia, la scuola fondata da Platone ad Atene nel 387 a.C.. In quegli anni di grande mutamento per la storia greca, in cui le poleis (le città-stato greche) perdevano di importanza politica, risucchiate dall’orbita del regno di Macedonia di Filippo II prima e di Alessandro Magno poi, c’erano filosofi che dichiaravano di seguire una tradizione socratica indipendente dal modo in cui la filosofia di Socrate era stata ripresa da Platone e, in misura minore, da Aristotele.
C’era ad esempio la scuola dei cosiddetti “Megarici” fondata da Euclide di Megara, che aveva ripreso in particolare gli aspetti dialettici del pensiero di Socrate focalizzandosi principalmente su problemi di logica e di metafisica.
C’erano poi i cirenaici e, soprattutto, i cinici, i quali invece presero spunto dal contesto generale della filosofia e dello stile di vita di Socrate, che non scrisse mai nulla e non professava nessuna precisa dottrina filosofica, ma suggeriva piuttosto un atteggiamento filosofico nei confronti dell’esistenza. Secondo la sua visione, l’attività filosofica si sarebbe dovuta concentrare sulla virtù, sulla vita buona e la “cura di sé”, anche a costo di trascurare campi di maggiore valenza teoretica come fisica, politica o cosmologia. A differenza di Platone e Aristotele, che hanno preferito costruire vasti sistemi filosofici, i cirenaici e cinici seguivano l’insegnamento di Socrate riguardante l’etica e il vivere una vita buona.
Socrate, in un certo senso, era stato l’incarnazione dell’atteggiamento filosofico da lui stesso propugnato: la sua vita era stata completamente dedicata alla ricerca razionale dei fondamenti di una vita buona, trascurando invece molti degli elementi convenzionali della vita quotidiana, come l’alloggio o il ben vestire: <<Socrate era l’uomo dotato di maggior autocontrollo su impulsi sessuali e desiderio fisico, colui che meglio si adattava a inverno, estate e a ogni sforzo, così abituato alla moderazione da essere soddisfatto quando aveva anche solo poco.>> (Senofonte, “Memorabili” II 1,1).
I suoi seguaci socratici, in particolar modo i cinici, lo consideravano l’esempio vivente del sapiente filosofo (σοφός), l’uomo che attraversa la vita sulla base della sua filosofia, immune a lasciarsi condizionare dalla fortuna o dalle circostanze avverse. Cirenaici e cinici concordavano nel considerare in questo il punto nodale della vera vita socratica: essere autosufficienti al massimo grado e tenere sotto controllo la propria vita usando la ragione come mezzo per procurarsi la felicità. Questo punto nevralgico dell’insegnamento socratico era perfettamente incarnato da una delle figure più enigmatiche ed inquietanti, nonché profonde, dell’intero panorama filosofico occidentale, Diogene di Sinope (404 – 323 a.C.), che fu il più famoso esponente del movimento cinico, la cui fama, legata ad episodi memorabili della sua vita, supererà quella di chi il movimento lo aveva effettivamente  fondato, ossia Antistene. 



Jean-Léon Gerome, “Diogenes” (1860)

Diogene, che proveniva da Sinope – una colonia greca del Ponto, una regione costiera dell’Anatolia nord-orientale – , veniva chiamato da Platone “il Socrate pazzo” e, stando a Diogene Laerzio, che rappresenta la fonte principale della sua biografia e del suo “pensiero”, non è difficile capire il perché: <<Mentre si masturbava sulla piazza del mercato, diceva: “Magari fosse altrettanto facile lenire la fame accarezzando lo stomaco vuoto”.>> (Diogene Laerzio, “Vite dei filosofi”, VI, 46). Con il suo comportamento inconsueto Diogene dimostrava di essere totalmente sprezzante nei confronti delle convenzioni. I numerosi aneddoti che racconta di lui Diogene Laerzio sono probabilmente veri, perché riportati anche da altre fonti, e sono utili per comprendere l’obiettivo che il filosofo voleva raggiungere con il suo particolare stile di vita: l’indipendenza dai beni materiali che avrebbe portato come conseguenza l’indipendenza del saggio da ogni tipo di turbamento.
Ad esempio si narra che distrusse il suo unico avere materiale, una ciotola di legno, quando vide un ragazzo bere nell’incavo delle mani, esclamando: <<Un fanciullo mi ha battuto nel vivere con semplicità! >> (Diogene Laerzio, “Vite dei filosofi”, VI, 37). Diogene viveva in una botte e faceva del suo meglio per digerire la carne cruda (ibidem VI, 23 e 34), e benché egli portasse le cose all’estremo, atteggiamenti del genere sarebbero diventati pratiche comuni tra i cinici.
Il movimento cinico in questo modo rivendicava di abolire le convenzioni sociali e di vivere una vita che si asseriva naturale, poiché essi credevano che, per molti aspetti, gli animali potessero essere presi ad esempio di una vita genuina in accordo con la natura (infatti la parola kynikos significa“simile a un cane”, e i cinici venivano spesso chiamati “cani”). 

Diogene e quelli come lui facevano di Socrate il loro eroe, ma l’immagine che fornivano di lui era ben diversa da quella che aveva fornito Platone ed è in questo aspetto che va ricercata l’antipatia che Platone nutriva nei confronti dei cinici e in particolar modo di Diogene, avversione che comunque era reciproca. Diogene infatti sosteneva che le lezioni di Platone erano una perdita di tempo (ibidem, VI, 24) e altrove gli viene attribuito anche un più generale atteggiamento anti teoretico: <<Quando qualcuno dichiarava che non esiste quel che si chiama movimento, egli si alzava e passeggiava. Quando qualcuno discorreva dei fenomeni celesti, Diogene chiedeva: “Quanto tempo è trascorso da quando scendesti dal cielo?”>> (ibidem, VI, 39). 

In viaggio verso Egina, Diogene venne catturato dai pirati e venduto come schiavo a Creta ad un uomo di Corinto, un tale Seniade, diventando il tutore dei suoi figli e il suo amministratore domestico. Venendo interrogato sul suo prezzo, replicò che non conosceva altro scambio possibile che quello con un uomo di governo e che desiderava essere venduto ad un uomo che avesse bisogno di un maestro: <<E chiedendogli l’araldo che cosa sapesse fare, Diogene rispose: “Comandare agli uomini”. Fu allora che egli additò un tale di Corinto che indossava una veste pregiata di porpora, il predetto Seniade, e disse: “Vendimi a quest’uomo: ha bisogno di un padrone”.>> (ibidem, VI, 32). 

Diogene visse a Corinto per il resto della sua vita, dedito a predicare le virtù dell’autocontrollo e dell’autosufficienza. L’episodio più noto della vita di Diogene è senza dubbio il suo incontro con Alessandro Magno durante i Giochi Istmici: <<Il re in persona andò da lui e lo trovò che stava disteso al sole. Al giungere di tanti uomini egli si levò un poco a sedere e guardò fisso Alessandro. Questi lo salutò e gli rivolse la parola chiedendogli se aveva bisogno di qualcosa; e quello: “Scostati un poco dal sole”. A tale frase si dice che Alessandro fu così colpito e talmente ammirò la grandezza d’animo di quell’uomo, che pure lo disprezzava, che mentre i compagni che erano con lui, al ritorno, deridevano il filosofo e lo schernivano, disse: “Se non fossi Alessandro, io vorrei essere Diogene”.>> (Plutarco, “Vite parallele”, Vita di Alessandro, 14). Diogene Laerzio, a differenza di Plutarco, riferisce che successivamente, forse irritato dalla mancanza di rispetto, Alessandro, per farsi gioco di lui che veniva chiamato “cane”, gli mandò un vassoio pieno di ossi e lui lo accettò ma gli mandò a dire: <<Degno di un cane il cibo, ma non degno di re il regalo>>. 


Monumento dedicato all’incontro tra Diogene e Alessandro Magno a Corinto,
opera in bronzo dello scultore Achilles Vasileiou

Il pensiero di Diogene può essere riassunto con questo passaggio della sua biografia scritta da Diogene Laerzio: <<Soleva anche dire che nella vita assolutamente nessun successo è ottenibile senza strenuo esercizio, e che questo è capace di vincere qualunque ostacolo. È dunque necessario che quanti scelgono le fatiche che sono in armonia con la natura, invece di quelle improficue, vivano felicemente; mentre coloro che scelgono, contro natura, la dissennatezza siano infelici. Lo stesso abito acquisito di spregiare il piacere fisico è piacevolissimo; e come quanti sono abituati ad una vita piacevole si dispiacciono se vanno incontro al suo contrario, così coloro che sono esercitati al loro contrario spregiano con gran piacere proprio i piaceri fisici. Di questo genere erano i discorsi che faceva e che dimostrava mettendoli in pratica: contraffacendo effettivamente la moneta, non concedendo alla legalità l’autorità che invece concedeva alla natura, e affermando di condurre la stessa sorta di vita che era stata di Eracle, il quale nulla anteponeva alla libertà. >> (Diogene Laerzio, “Vite dei filosofi” VI, 71). 
Diogene riteneva, infatti, che gli esseri umani vivessero in modo artificiale e ipocrita e che dovessero essere più liberi. Oltre a praticare in pubblico le fisiologiche funzioni corporee senza essere a disagio, secondo il suo pensiero il sapiente mangerà di tutto e non si preoccuperà di dove dorme, vivendo in modo naturale nel presente senza preoccupazioni. Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come “critico” pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l’esempio che la saggezza e la felicità appartengono all’uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell’ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione.
Sempre Diogene Laerzio narra che una volta Diogene uscì in pieno giorno con una lanterna accesa esclamando: “Cerco l’uomo!”(ibidem, VI, 41). L’uomo che cercava Diogene non era l’uomo sapiente, onesto, o giusto, era “l’uomo naturale”, ossia quel tipo di individuo che è in grado di vivere secondo la sua più autentica natura, cioè l’uomo che è in grado di andare oltre le convenzioni e le regole imposte dalla società e che vive felicemente conforme soltanto a se stesso.
Diogene non escludeva certo l’utilizzo della ragione, ma credeva che l’uomo dovesse farne un uso diverso rispetto a quello che, ad esempio, ne avevano fatto Platone e Aristotele. Quando Diogene afferma che abbiamo bisogno della ragione, si riferisce non a uno strumento che può essere usato per indagare il cosmo (Aristotele), né tantomeno per familiarizzare con una realtà trascendente (Platone), ma intende il mezzo che ci permette di vedere oltre le inutili convenzioni e di acquisire una visione chiara di come si possano soddisfare i bisogni umani senza farci schiavi di tali bisogni, attraverso un attaccamento che, inevitabilmente, finisce per farci perdere la nostra autosufficienza. 

   Giuseppe D’Alto 

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