Essere felici: un pendolo tra beata ignoranza e consapevolezza

Mi rivolgo direttamente a te che leggi questo articolo, perdonami se sono così indelicato: come interpreteresti questa foto in cui, anche tu come me, potresti esserti imbattuto scrollando la home di Facebook? (Fig. 1).

Fig. 1: Chi è intelligente non può essere felice

A me il significato pare eloquente: solo chi manca di intelletto può ambire alla felicità. Ma sarà poi vero?
Di sicuro non è un’idea nuova. Nel mito greco due immagini sono particolarmente esplicative: la prima vede il famoso re Mida intento a inseguire un satiro di nome Sileno, enigmatica figura legata al mondo bucolico e in possesso di una saggezza a cui gli uomini non possono attingere. In quell’occasione il satiro, secondo il resoconto offerto da Nietzsche (La nascita della tragedia”, Adelphi, pp. 31-32), una volta interrogato dal re sul senso dell’esistenza, sebbene all’inizio reticente, risponde fra stridule risa: “perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente”.
La seconda immagine, tratta dal IX libro dell’Odissea, è la descrizione del popolo dei Lotofagi: costoro, abitanti di un’isola sulla quale Ulisse approda dopo nove giorni di tempesta, vivono in uno stato di eterna beatitudine grazie all’unico cibo che riescono a mangiare, i fiori del loto, che ha la caratteristica di far perdere loro la memoria.
Il senso di entrambi i racconti è chiaro: l’unico modo per essere felici (se di felicità possiamo ancora parlare) è rinunciare alla propria dimensione umana, come i Lotofagi che vivono senza passato e senza futuro, oppure morire. In alternativa, cosa tristemente vantaggiosa, l’ignoranza. 


Tuttavia, anche in tempi più recenti, è possibile incontrare pensatori che associano alla felicità l’ignoranza, intesa questa volta come regresso ad uno stato naturale, animalesco e pre-umano: Giordano Bruno affermava che “l’ignoranza è madre della felicità”; Giacomo Leopardi scriveva che “la felicità consiste nell’ignoranza del vero”.
Quante voci autorevoli! Sembra proprio che siamo condannati.

O forse no. Un’altra immagine ci viene in soccorso e, visto che abbiamo iniziato questo gioco interpretativo, continuiamo su questa falsariga: prima te la mostro (Fig. 2), poi la commentiamo.

Immagine che contiene acqua, arancia, sedendo, blu

Descrizione generata automaticamente

Fig. 2: Più si è consapevoli, più si è felici

Questa illustrazione – desunta dalla sezione Filosofia dell’enciclopedia “Le Garzantine” (2007) – si pone in netta antitesi con quella precedente: solo chi affronta un percorso di conoscenza di sé e del mondo puògradualmente aprire gli occhi, apprezzare il mondo ed essere felice.
Quando si parla di filosofia, di comprensione del vero, di disinganno dalle illusioni e felicità, il nome più imponente nella cultura occidentale è quello di Platone. Nel suo pensiero, felicità e conoscenza da una parte e ignoranza e malvagità/infelicità dall’altra sono concetti tanto interrelati che nelle pagine della “Repubblica” (580c – 588a) si ha modo di leggere: “solo il vero filosofo può raggiungere la conoscenza, quindi la felicità”. L’idea platonica ha in seguito influenzato il suo allievo più brillante, Aristotele, il quale, asserendo che “la visione del vero è il bene supremo dell’intelletto umano” (Etica Nicomachea VI), ha prodotto un’eco che risuona ancora in Dante 1500 anni dopo. In un celebre passo dell’Antinferno, Virgilio rivolge al poeta le seguenti parole:

«Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto». (Inf. III, v. 16-18)

Non solo l’Occidente si è interrogato su come essere felici e su come agire in armonica consapevolezza con il mondo. Così si esprimeva Paramhansa Yogananda, monaco indiano vissuto a cavallo tra XIX e XX sec.: “Sono impegnato nell’impresa di elevarmi dall’ignoranza per giungere alla comprensione e all’illuminazione. È necessaria tutta la mia attenzione per liberare i miei pensieri e le emozioni […] dai detriti della negatività”. Solo allora “l’acqua pura della vita potrà zampillare e fluire liberamente attraverso di me per benedire tutto e tutto e tutti”.

Bene, dopo avere ascoltato tante opinioni, penso abbiamo abbastanza elementi per provare una sintesi provvisoria: certamente il sogno di una totale immersione in un mondo privo di ogni distinzione (su tutte, quella tra soggetto e oggetto, tra natura e cultura, tra passato e futuro) parla dell’infinita nostalgia di quando, primati sugli alberi, eravamo davvero beati, sebbene non lo sapessimo; tuttavia, se oggi ci caratterizziamo come Homo sapiens, a meno di ricorrere alla lobotomia, si deve tentare un’altra via per la felicità. E forse, per quanto ardua, lunga e del tutto ipotetica, quel percorso verso una profonda e radicata consapevolezza di sé e del mondo è l’unico che ci rimane.
Buon viaggio a tutti.

Giovanni Tavazza

Sharing is caring

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *