Siamo alla fine del 1200, in Italia, in una delle più importanti metropoli europee del tempo, Firenze, che con i suoi 100.000 abitanti era un centro pulsante e fecondo esattamente come oggi lo sono Londra o Berlino. Così ce la descrive lo storico e romanziere Alessandro Barbero nel suo ultimo libro dal titolo asciutto ed eloquente “Dante” (Laterza, 2020):
“I suoi mercanti operavano in tutte le città del mondo cristiano, e i suoi banchieri gestivano le finanze del papa, cioè della più colossale organizzazione multinazionale esistente al mondo. I profitti erano vertiginosi, gli arricchimenti velocissimi, la mobilità sociale più importante che in qualsiasi altro luogo […].”
Ebbene, è proprio qui che si sviluppa in maniera consistente e articolata un movimento poetico che si differenzia da tutti gli altri precedenti: quello che la manualistica chiama il “dolce stil novo”, recuperando la definizione che Dante fa pronunciare a Bonagiunta Orbicciani nel XXIV canto del Purgatorio, scritto negli anni ‘10 del Trecento. Bonagiunta Orbicciani era un esponente della scuola di Guittone d’Arezzo, cioè della poesia che ha preceduto il “dolce stil novo”. La poesia di Bonagiunta si colloca all’interno della scuola siculo-toscana perché assimila la poesia siciliana e la toscanizza. Dante considerava questa poesia rozza e primitiva e così, incontrando Bonagiunta, dà una sua definizione di poetica stilnovista dicendo ai vv. 52-54:
«I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».
“Sei poeti toscani”, Giorgio Vasari (1544)
Qui Dante introduce almeno tre concetti fondamentali. Innanzitutto amore, che è il tema centrale, il nucleo della poesia stilnovista; il concetto di spirare, ossia come dice Ferroni “creare nell’anima un movimento di sostanze psichiche”, una sorta di ispirazione da non confondere per nessuna ragione con la concezione romantica della parola; e infine il dittare dentro: il verbo è un verbo tecnico delle artes dictandi e significa “comporre in versi”, cioè dare una forma razionale, una veste retorica a questa ispirazione. A questo punto, dopo aver pronunciato quelle parole, Bonagiunta, nel testo di Dante, comprende la differenza che li aveva separati (vv 55-63):
«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo».
Bonagiunta è in questo punto del testo che pronuncia le famose parole “dolce stil novo”. La dolcezza si spiega col fatto che c’è una piena armonia tra lo stile usato e il contenuto espresso, tra forma e contenuto, nelle parole di Bonagiunta: “Io veggio ben come le vostre penne /
di retro al dittator sen vanno strette”. C’è dunque un accordo tra lo stile usato (“le vostre penne”) e la materia trattata (“dittator” cioè amore). Questa consonanza costituisce la “novità” della poetica stilnovista.
La “Divina Commedia” è ricca di echi professionali, di riferimenti al lavoro di Dante che prendono forma nell’incontro con altri scrittori, cosicché nel poema è possibile intravvedere anche un’autobiografia letteraria dell’autore, in cui vengono tracciate le varie fasi della sua poetica e i relativi superamenti di tali fasi. Ed è proprio in un altro passo dell’opera che Dante, da storico della letteratura, individua il “padre” dello stil novo nel bolognese Guido Guinizzelli: “il padre/ mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre”.
Dante incontra Guinizzelli nel XXVI canto del Purgatorio, nel girone dei lussuriosi, e non è un caso. Si tratta, come accennavamo poco fa, di una dichiarazione di superamento di una fase poetica. Dante vuole mostrare che lo stil novo conteneva ancora delle tracce di carnalità non del tutto scomparse. C’erano delle scorie di lussuria in questa poetica che hanno portato, per esempio Francesca, alla perdizione. Se infatti leggiamo le prime parole che pronuncia Francesca nel V canto dell’Inferno (v. 100): “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”, cioè “l’amore che si attacca subito al cuore nobile” vediamo che ricalca le parole di Guinizzelli: “Al cor gentil rempaira sempre amore”. “Gentile” nel lessico medievale significa proprio “nobile”, viene dal latino “gens”, la stirpe.
Illustrazione del canto V dell’Inferno, Gustave Dorè (1860 ca.)
Queste parole ci permettono infine di sottolineare l’aspetto essenziale e unificatore dello stil novo, cioè l’aspetto comune ai vari poeti stilnovisti quali Dante, Guido Cavalcanti e gli altri come Lapo Gianni e Cino da Pistoia, vale a dire la stringente connessione tra amore e nobiltà. Secondo gli stilnovisti è solo nel rapporto d’amore che si può esplicare a pieno il concetto di nobiltà d’animo. Solo chi ha un cuore nobile può amare veramente. Si tratta di una nobiltà non ereditaria, non di sangue, ma d’animo. Certo, anche in questo caso lo stil novo si configura come una poesia d’élite, con un linguaggio per pochi, anche se si tratta di una nuova élite: i “fedeli d’amore”.
Giulia Novelli