Uno degli interrogativi più interessanti che offre agli spettatori la terza stagione di “Westworld – Dove tutto è concesso” è se sia preferibile vivere in un mondo in cui le libere scelte personali forgiano la realtà con il rischio che la collisione tra le varie libertà individuali generi il caos (come d’altra parte dimostrato dalla storia dell’umanità) o se sia meglio vivere in una realtà in cui tutto è già prestabilito. Nella terza stagione della serie ispirata al racconto di Michael Crichton veniamo a conoscenza dell’esistenza di una prodigiosa intelligenza artificiale, Rehoboam, un computer quantistico che elabora i dati di ogni singolo abitante del mondo e in base a questi ne costruisce in modo predeterminato il destino, che effettivamente si compie nell’illusione dell’individuo di agire in virtù del suo libero arbitrio. Nell’universo di “Westworld” il successo di questo sistema, che agisce sottobanco in massima segretezza, dipende dal fatto che gli abitanti del mondo non sospettano minimamente che le loro scelte non siano libere. Ed è proprio questo il punto. Possiamo affermare, con certezza assoluta, che le nostre scelte, quelle che facciamo tutti i giorni, dalle più banali alle più importanti, siano totalmente dipendenti dalla nostra piena volontà e non siano invece condizionate da altri fattori estranei?
Siamo realmente liberi oppure lo crediamo soltanto? Nonostante crediamo di possedere un libero arbitrio non finiamo forse per adattarci ad un mondo la cui struttura ci appare già prestabilita, seguendo inconsapevolmente un progetto che è destinato a portarci verso un fine che non è stato scelto da noi? Questi sono alcuni tra i quesiti filosofici più interessanti, ma anche tra i più spinosi, in cui gioca un ruolo fondamentale l’idea che abbiamo della realtà, la quale non sempre ci appare del tutto chiarificatrice. Questa idea trova la sua prima formulazione in Platone.
Nel famoso mito della caverna il filosofo greco descrive la particolare condizione di alcuni uomini, imprigionati fin dalla nascita all’interno di questa cavità, che credono che la realtà consista nelle ombre delle cose proiettate sul fondo della caverna da un fuoco che si trova alle loro spalle. Platone immagina che un giorno un prigioniero riesca a liberarsi dalle catene e che una volta uscito dalla caverna, osservando il mondo, si renda conto di aver creduto per tutta la sua vita ad una menzogna. Inizialmente, non riesce a sopportare la vista della luce del sole, il disvelamento della vera realtà, e desidera ritornare all’interno della spelonca per continuare a nutrirsi di illusioni credendo che le ombre delle cose rappresentino la realtà.
Rappresentazione grafica del mito della caverna di Platone
È così che si sente Caleb, uno dei protagonisti della terza stagione di “Westworld”, quando scopre l’esistenza di Rehoboam e di quello che il computer fa. Nonostante lo smarrimento iniziale, proprio come il prigioniero di Platone, riesce a farsi forza e decide di non credere più a nulla di quello che gli viene raccontato e fatto credere. Decide di prendere in mano il proprio destino e di esserne l’artefice con le proprie scelte. Ciò che il mito di Platone suggerisce è che il primo passo verso l’autentica sapienza è rendersi conto che la realtà non offre una reale conoscenza, ma soltanto una parvenza di conoscenza, tanto futile quanto illusoria, ed è per questo necessario affidarsi alla propria ragione per non rimanere intrappolati nei suoi inganni.
Una volta assodato che spesso finiamo per credere ad una realtà impostaci da altri e che il primo passo per avere consapevolezza è aprire gli occhi mettendo in dubbio ciò che troppe volte diamo per scontato, la domanda fondamentale dalla quale eravamo partiti rimane inevasa: viviamo in un mondo libero oppure in un mondo predeterminato? Martin Heidegger sosteneva che, in un certo senso, l’uomo accade, viene gettato nel reale, ossia: non scegliamo noi di venire al mondo, di esistere, ma ci ritroviamo al mondo, un mondo che esiste già molto prima di noi e che possiede le sue logiche alle quali, volenti o nolenti, ci adeguiamo. A rifletterci questo stato di cose non potrebbe in effetti rappresentare una sorta di predeterminazione che viene invece mascherata da sistema che permette la libera scelta individuale? E chi si accorge di questo stato di cose non viene molto spesso tacciato di fatalismo e ostracizzato? Come avviene nella società futuristica di “Westworld” e in altri sistemi di narrazione distopici, gli elementi che non si uniformano vengono considerati soggetti destabilizzanti che vivono al margine di un sistema perfetto e onnisciente, individui che devono essere uniformati, e quindi cambiati, o, nel caso opponessero resistenza, eliminati. D’altronde, anche il prigioniero “illuminato” di Platone, quando rientra nella caverna per informare i compagni che quello che vedono non è la vera realtà, rischia di essere linciato, poiché ha osato mettere in dubbio la validità delle loro credenze.
Come scriveva il filosofo tedesco Feuerbach, è l’uomo a creare Dio e non il contrario, e in effetti in “Westworld” Rehoboam viene definito dal suo stesso creatore come ciò che più si avvicina ad una divinità, perché in che altro modo si potrebbe definire un’entità che progetta il destino per ogni singolo abitante del pianeta? L’obiettivo di Rehoboam è quello di evitare il caos che si genera dallo scontro delle varie scelte tra differenti individualità.
Quindi, sintetizzando, in “Westworld”, Rehoboam non dà possibilità di scelta al soggetto, ma, sulla base di freddi dati statistici, decide il destino del singolo mascherandolo come risultato delle libere scelte dello stesso. È su questo che in effetti si fonda l’intero ragionamento sul libero arbitrio: la possibilità che il soggetto ha di compiere delle scelte tra varie possibilità consapevole delle conseguenze che le sue azioni provocano.
Rehoboam, la super intelligenza artificiale
che pianifica il destino degli esseri umani in “Westworld”
Tuttavia le cose non sono così semplici, perché la possibilità di compiere liberamente le proprie scelte porta l’uomo di fronte ad un’inquietante categoria, quella dell’angoscia. Søren Kirkegaard sosteneva che l’esistenza si trova perennemente in bilico tra due abissi: l’angoscia e, appunto, il libero arbitrio. Per Kirkegaard l’angoscia che attanaglia l’uomo nasce dalla libertà di poter scegliere di fronte ad un’infinita possibilità di alternative che possono rivelarsi favorevoli o sfavorevoli. Scrive Kirkegaard: “Chi fu realmente educato mediante la possibilità ha compreso tanto il lato terribile quanto quello piacevole, perché ciascuno è responsabile in prima persona delle conseguenze delle proprie azioni.” (S. Kirkegaard, “Il concetto dell’angoscia”). Quindi, se facciamo fatica ad accettare la possibilità di vivere in un mondo predeterminato, altrettanto faticosamente ci troviamo a dover gestire, nell’eventualità che le nostre siano tutte libere scelte, il peso delle conseguenze che queste scelte comportano. Il problema però è che le nostre scelte, come già detto, non sono mai totalmente libere. Per quanto non ci faccia piacere ammetterlo viviamo in un mondo in cui sono presenti inconfutabili elementi di determinismo, per cui le nostre scelte, anche involontariamente, sono dettate dall’ambiente che ci circonda, dal contesto sociale e culturale e, addirittura, dal nostro corredo genetico. Stando infatti alle ultime ricerche nel campo delle neuroscienze, le nostre connessioni neuronali, che sono le responsabili delle nostre scelte e quindi delle nostre azioni, sono predeterminate in base ai nostri geni: in poche parole, agiamo in un determinato modo perché i nostri geni sono tali da farci agire così. Ci si può definire liberi in tal senso?
Albert Camus nel “Il mito di Sisifo” faceva notare che il problema del libero arbitrio umano si riduce all’onnipotenza o meno di Dio: o non siamo liberi, allora Dio è onnipotente, oppure siamo liberi e Dio non è onnipotente, perché delega anche a noi, tramite il libero arbitrio appunto, la scelta morale delle azioni. Questa sorta di stallo per il pensatore francese poneva l’uomo di fronte alla categoria dell’assurdo, cioè allo scoprire che è impossibile rintracciare un significato autentico nell’esistenza, e quindi era impossibile farlo anche per definire le libere scelte personali.
È probabile che la nozione di libero arbitrio rivesta una valenza più simbolico-morale che concreta: la possibilità che comunque abbiamo di compiere delle scelte ci porta ad agire seguendo degli ideali, dei valori che in un mondo fatalista non avrebbero alcun senso. Non bisogna infatti confondere il determinismo con il fatalismo. Il fatto che non tutte le nostre scelte siano totalmente libere non significa che la possibilità di scelta dell’individuo venga annullata, o peggio che questa non abbia nessun valore. Il libero arbitrio dimostra che il soggetto ha la possibilità di scegliere e, nonostante vi siano delle situazioni nelle quali non ci è dato scegliere o comunque sebbene le nostre scelte siano fortemente dipendenti da altri fattori, sono le singole scelte individuali a dare forma al mondo in cui viviamo ed è la consapevolezza di ciò che ci permette di agire eticamente, di seguire una scala di valori sulla quale basare le proprie scelte. Un fatalista non sa che farsene dei valori, e ciò lo rende o il più libero tra gli uomini o il più dissennato.
Giuseppe D’Alto