E’ il 1910. Giovanni Pàstine ritorna nella natìa Monterosso, prima perla delle Cinque Terre in Liguria. E’ un ritorno particolare, da una terra lontana: l’Argentina. L’uomo, dopo aver fatto fortuna, si prepara ora a consumare i frutti del suo successo facendo costruire una sontuosa villa a picco sul mare, sulla spiaggia di Fegina, molto vicina alla “pagoda giallognola” di un allora quattordicenne Eugenio Montale, che soleva trascorrere le sue vacanze sulla riviera che “odora di limoni”.
Montale scrutava così la famiglia Pàstine e a volte vedeva Giovanni in persona passeggiare “sul terrazzo col panama in testa. Aveva lunghi baffi morbidi, il mento sbarbato e portava cravatte vistose e camicie di seta cruda. […] Ospitarono a lungo uno sculture di Pietrasanta, lo stesso al quale affidarono la creazione del grande Nettuno e degli altri dèi marini che reggevano sulle spalle la immensa ostrica del terrazzo. Ma le statue, battute dalle mareggiate e dal libeccio, perdevano ogni tanto un piede o una mano […]” (E. Montale, nella redazione finale di “Dov’era il tennis”, poema in prosa inserito ne “La bufera e altro” – 1943)
Lo stupore del poeta si concentra soprattutto sulla struttura architettonica della neonata villa e in particolar modo sulla terrazza: un’enorme conchiglia di San Giacomo aperta sul mare e sorretta dalle spalle del dio dei flutti Nettuno, il cosiddetto Gigante di Monterosso. Questa opera, in cemento armato e ferro realizzata dallo scultore Arrigo Minerbi e dall’architetto Francesco Levacher, era unita alla roccia del promontorio di Punta Mesco.
Montale così la descrive: “tre piani alti più di cinque metri ciascuno, con una torre e terrazze e una loggia a colonne e un ponticello e un lastricato decorato come un tappeto turco e le panchine in finto legno e una grande scalinata in marmo di Carrara a tre rampe e perfino un’improponibile copia della Statua della Libertà…e poi le arcate che sorreggevano la scalinata ricoperte di finta roccia e il giardino pensile antistante la villa…un sogno o, per l’architettura razionalista, un delirio! (E. Montale, in “La farfalla di Dinard” – 1956).
Ricostruzione della statua del Nettuno prima della sua distruzione
Un vero delirio poi scoppiò durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la statua e la villa di Pàstine furono colpite dai bombardamenti distruggendo gran parte della struttura, di cui oggi rimane soltanto il gigante, senza tridente, come se avesse perso il suo potere, e senza conchiglia.
[…] “oh allora sballottati come l’osso di seppia
Dalle ondate svanire a poco a poco; diventare
un albero rugoso
o una pietra
levigata dal mare ; nei colori confondersi
di tramonti; sparir carne per spicciar
sorgente ebbra
di sole, dal sole divorata” […]
Da “Riviere”, Ossi di Seppia
Ecco la triste sorte del Nettuno di Monterosso che, anche oggi, come un osso di seppia, è sballottato e schermito dal Libeccio e dalle onde del mare.
La statua del Nettuno oggi
(fonte: @hannespeer, Instagram)
Unico momento di gloria del Nettuno fu alla fine degli anni ’80 del Novecento, quando una signora, Carla Vignola, trovò sotto il tallone del gigante un piccolo tesoro.
Durante il secolo scorso, infatti, era tema comune nei romanzi d’avventura inglesi nascondere tra le righe una caccia al tesoro ricca di indovinelli, che avrebbero portato realmente il lettore a scoprire un vero bottino. Il più famoso tra questi libri fu quello illustrato da Kit Williams, intitolato “Masquerade”, e pubblicato nel 1979.

Copertina del libro “Masquerade”
di Kit Williams (1979)
Nel romanzo erano presenti grandi immagini simboliche che narravano una favola per bambini piena di enigmi, indovinelli e frasi in codice da risolvere. La storia era questa: la Luna aveva scelto un messaggero che avrebbe dovuto consegnare un regalo al Sole: Jack la Lepre, un bambino che girava sempre con una maschera da lepre sugli occhi. Jack, una volta giunto a cospetto del Sole, si accorse di aver perso il piccolo dono e invitava il lettore a ritrovarlo tra le figure. Sotto ogni disegno c’erano alcune parole e lettere di colore diverso, che andavano a formare la parola “hare”, lepre in inglese. Tutti questi nomi in codice creavano un gigantesco meccanismo che, risolto, portava a scoprire un luogo del tesoro reale, dove si sarebbe trovato uno scrigno contenente un gioiello a forma di lepre. Il tesoro venne trovato tre anni dopo la pubblicazione del libro, nel febbraio del 1982.
Ebbene, la stessa cosa successe in Italia con la traduzione del libro “Il Tesoro di Masquerade” (Emme Edizioni), reinventato da Joan Arnold e Lilli Denon in modo che il percorso che portava al tesoro si concludesse proprio a Monterosso al Mare, dove un gioiello – scoperto poi dalla signora Carla Vignola – era stato nascosto ai piedi del Nettuno di pietra che domina la spiaggia.
Non preoccupatevi: Kit Williams scrisse un altro libro di indovinelli: “The Book without a Name” (1984). In bocca al lupo!
Alessandra Busacca