Il matrimonio è una delle istituzioni più longeve e, qualunque sia la religione o la civiltà degli sposi, ha sempre ricoperto un ruolo importante nella società umana e un significato sacrale. E’ l’unione ufficiale tra due persone. Per alcuni fortunati è il coronamento di un sentimento d’amore, per altri invece può trasformarsi in un incubo. Il matrimonio dovuto a un sodalizio tra famiglie o a un affare economico di sola rappresentanza, spesso anche ridotto a una questione politica, apre un vaso di Pandora su alcune usanze purtroppo ancora attuali e racconta l’assurdità di un rito che per molte culture reca ancora più danni che gioie.
Non dimentichiamoci per esempio della tristemente nota pratica delle “spose bambine” come Aisha (che racconta la sua storia a Save The Children, https://www.savethechildren.it/sh/la-storia-di-una-sposa-bambina/), costretta a sposarsi a 13 anni, quando frequentava la scuola primaria. “Mi hanno obbligata a sposare un uomo molto più grande di me, di 30 anni”, – afferma -. “Ho vissuto con quest’uomo per un po’ ma non andavamo d’accordo per la differenza di età. Ho provato a scappare molte volte, ma ogni volta mio padre mi riportava da lui”.
E non dimentichiamoci neppure dei diritti LGBT+. Solo dal 2016 la legge italiana riconosce l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica e riconosciuta formazione sociale, ma è importante sottolineare che restano comunque ancora molte le differenze tra questo tipo di unione e il matrimonio, che in Italia è possibile solo per le coppie eterosessuali.
In ogni caso per la cultura della Grecia antica il matrimonio era un vero e proprio contratto.
Per i latini invece non vi era inizialmente alcun rito, se non la pronunciazione nel foro di una formula: “Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia“, declamata però solo dalla donna.
Frammento di sarcofago romano con scena di matrimonio (150-200 d.C.)
L’usanza di costume delle antiche donne romane era curiosa rispetto a quanto in voga oggi.
La sposa indossava sì una tunica bianca lunga fino ai piedi (la tunica recta), ma aveva il capo coperto da un velo di garza, il velarium flammeum di colore rosso, unito a una corona di maggiorana e verbena o mirto e fiori d’arancio. Ingredienti alchemici per un amore perfetto.
Questo copricapo, per tutta la durata della cerimonia, veniva sollevato e teso anche sul capo dello sposo. Da qui deriva il termine latino nubere che significa proprio “velarsi”, prendere il velo e quindi sposarsi, e il termine italiano “nubile” cioè colei che deve prendere il velo e quindi non è ancora sposata.
Le origini della cerimonia sembrano potersi ravvisare nell’importantissima usanza del “Flamine Diale” (dal nome del sacerdote preposto al culto di Giove Capitolino) in cui la donna flaminica, moglie del sacerdote, indossava proprio un velo color fiamma e sottostava a regole ferree di comportamento.
La modella e attrice Lou Dillon in un frame del fashion movie girato da Gia Coppola per Gucci
(collezione pre-fall 2016), reinterpretazione moderna del mito di Orfeo ed Euridice
Il colore rosso era ad alto valore simbolico perché rappresentava il sangue che la donna avrebbe versato col parto e in più aggiunto alla stirpe (idealmente con i figli). Se arancio, il velo simboleggiava invece il colore del fulmine di Giove. Inoltre, il rosso ricordava anche il colore del fuoco di Vesta, la fiamma perpetua che ardeva nel tempio di Vesta e che le Vestali, vergini consacrate alla dea, mantenevano sempre accesa.
Guai se il fuoco si fosse spento, pena la condanna a morte!
Ebbene esso venne però spento nel 394 d.C. quando il cristianesimo divenne unica religione dell’Impero, impedendo la pratica di tutti i riti pagani. Il colore rosso assumeva per questa religione un nuovo significato, la passione di Cristo e non più quella della spose.
Sarà per questo che non è stata mantenuta la tradizione del velo rosso?
Alessandra Busacca