“Kynodontas” è stato censurato, o meglio boicottato, fin dalla sua prima uscita nel 2009. Non fu trovato nessun distributore, nessuna compagnia disposta a farne il doppiaggio.
Non ce ne stupiamo perché su Google i top voted tags inerenti al film sono: “disturbing, dark, psychological, shocking, violent, thought provoking, surreal, unique”.
Locandina del film premiato per la sezione “Un Certain Regard” del Festival di Cannes nel 2009
Quest’anno, durante il mese di agosto, ben undici anni dopo la sua prima comparsa, dopo aver vinto un premio a Cannes nel 2009 e una nomination come miglior film dell’anno nel 2011, “Kynodontas” (“Dogtooth”) è approdato nelle sale cinematografiche italiane. Certo, tempismo assai poco propizio considerata la pandemia globale. Ma questa volta è proprio il caso di dire “meglio tardi che mai…”!
Il cineasta greco Yorgos Lanthimos anche qui, come per le sue sceneggiature seguenti, si concentra sul tema dell’assurdo, che affonda le radici nel sostrato mitologico che è parte innegabile della sua cultura di provenienza, e che forma l’ossatura robusta su cui si regge ogni sua succosa e drammatica trama.
Vediamone alcuni pilastri.
In questa storia, l’attesissima caduta di un dente canino (kynodontas = “canino”, in greco) è il prezzo da pagare per la libertà (e sappiamo tutti che non sono denti da latte…).
In questa storia, i gatti sono essere immondi e pericolosi.
In questa storia, il mare non esiste, i branzini e le triglie si materializzano come per magia nella piscina azzurra in giardino, che si trasforma per l’occasione in una sorta di gigantesco acquario, dove praticare la pesca.
In questa storia, il linguaggio, come lo conosciamo noi, non ha valore, perché tutto ha un nuovo significato. Una fica è una “lampada molto luminosa”. Un telefono è il “sale da cucina”. Uno zombie è un “fiorellino giallo”.
Scena tratta dal film
L’incomunicabilità, l’incomprensione verbale tra noi, il pubblico e i personaggi funziona da elemento catartico. Il regista, istituendo tale distanza, vuole suggerirci di mantenere un certo distacco durante la visione, proprio perché non vuole rappresentare il nostro mondo, ma solo una curiosa e pericolosa alternativa ad esso a cui due genitori hanno deciso di obbligare i loro tre figli?
Eppure perché nel guardare il film, ci sentiamo tutti così vicini a questi figli in trappola? Anche a noi, infatti, non sarà concesso di vedere altro se non ciò che si consuma nel mondo virtuale creato per loro. Lanthimos dirà delle sue ispirazioni: “è un’idea che mi è nata da una riflessione fatta con un gruppo di amici sulla famiglia odierna. Per me la domanda fondamentale è presto diventata quanto un uomo può limitare e sopraffare il cervello di un altro essere umano, non solo nell’ambito ristretto di un nucleo familiare, ma anche in un’azienda o in un’intera nazione”.
Quale archetipica realtà ha messo in scena Lanthimos? La cronaca del fascismo quotidiano?
Forse quella della famiglia borghese con le sue bugie e falsità, coi suoi peccatucci, ipocrisie, compiute proprio in nome di quella stessa famiglia?
Scena tratta dal film
Siamo così allertati. Ogni oggetto, ogni creatura provenga dall’esterno di casa è considerata una minaccia. Per nessuna ragione si deve uscire dalla villa: solo il capofamiglia despota e garante dell’ordine può. I giorni trascorrono ininterrottamente uguali, nella noia di regole ferree e insensate, tra competizioni fanciullesche, qua e là ravvivate da festicciole di famiglia, compleanni, anniversari…e dalla presenza di Christina (una donna lautamente pagata dalla famiglia, una dipendente).
Il ruolo di questa donna è quello ufficiale di educatrice sessuale per il primogenito maschio, unico individuo cui il padre lascia esplorare le sue pulsioni.
Ai figli è costantemente raccontato un mondo che non esiste, fittizio e gestito in modo dittatoriale, finché “la donna forestiera” non inizierà a metterne in crisi le fondamenta.
Christina da un lato se ne approfitta, ma dall’altro insegnerà agli “uccellini isolati e in gabbia” a dubitare della parola dei loro simili, a non prendere per vera ogni cosa loro detta, instillando il dubbio, foriero di rivoluzioni.
In questo, “Kynodontas” ricorda un po’ il film di Pasolini “Teorema” del 1968, dove un solo ospite, giovane e attraente, sconvolgerà la realtà di una ricca famiglia milanese. Le somiglianze riguardano per altro anche le sorti giudiziarie del film, anch’esso inizialmente requisito “per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali” tra cui diversi rapporti omosessuali.
Ma lo sconvolgimento, se così possiamo chiamare la reazione maggioritaria del pubblico, non può essere soltanto di tipo sessuale, per cui mai nessuno confessa di essere scandalizzato, bensì “ideologico e mistico” (ragione per cui il Tribunale stesso assolse “Teorema” di Pasolini), e soprattutto, in quanto opere d’arte, film del genere soddisfano perfettamente una delle funzioni più nobili dell’arte: quella di far pensare, pungolare gli spiriti critici e forse dar voce a una ferma critica alla società.
Alessandra Busacca