La necessità del pregiudizio

Alla voce “pregiudizio” il vocabolario online Treccani riporta, tra tutti, i seguenti significati:
“Idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore”; e ancora: “Convinzione, credenza superstiziosa o comunque errata, senza fondamento”.
Che un ragionamento basato su pregiudizi comporti spesso aspetti negativi è certamente una triste realtà, ma è bene non confondere la causa con l’effetto. Magari sarebbe utile affrontare la questione in questi termini: qual è la dimensione costitutiva del pregiudizio?

Secondo l’analisi di Francesco Remotti in “Antropologia culturale. I temi fondamentali” – una raccolta di saggi a cura S. Allovio, L. Ciabarri, G. Mangiameli (Raffaello Cortina Editore, 2018) – ci sono due modi per intendere la parola “cultura”: il primo, quello più comune, si riferisce alla formazione individuale dell’individuo; il secondo, proprio delle scienze sociali, guarda agli individui come membri di una società specifica o di un gruppo che condivide una certa visione del mondo. Fin qui, si potrebbe dire, niente di nuovo.
Nel corso del volume, tuttavia, ci si imbatte in un saggio decisamente interessante: “Cosmologie”, lavoro pubblicato da Michael Herzfeld, Research Professor of the Social Sciences presso Harvard.
Secondo l’autore, con il termine “cosmologia” si intende il modo in cui una società (o un individuo) concepisce il mondo, il posto occupato dall’uomo nell’universo, la distinzione che intercorre tra ciò che è naturale e ciò che è culturale, tra ciò che è permesso e ciò che è tabù.
Per tornare al pregiudizio, ci si rende conto che esso non può non rimandare a un contesto cosmologico: in quanto “opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali”, esso, per avere pretesa di validità, deve mantenersi coerente con lo sfondo in cui è inserito. Ciò che conta, dunque, non è tanto l’idea o l’opinione in sé, bensì il rapporto tra questa e lo sfondo teorico di riferimento.

Ora, negli ultimi cinquecento anni, le scoperte geografiche, il colonialismo e la globalizzazione hanno permesso la scoperta di una sterminata moltitudine di cosmologie: tante popolazioni e tanti modi di declinare l’essere umano. Come emerge dal saggio di Francesco Remotti “Contro natura, una lettera al Papa” (Laterza, 2008), il relativismo culturale non deve essere inteso come indifferenza di fronte ai valori della propria società, ma come uno sprone per mettere in discussione quanto di più certo abbiamo, al fine di avere una comprensione più profonda del fenomeno “uomo”. Inoltre, cosa ancora più importante, non pare proprio che esista uno “strato roccioso” e stabile a cui aggrapparsi per costruire una “etica universale” né sembra possibile trovare una legge generale a cui ridurre l’infinita proliferazione degli usi e dei costumi. Come diceva B. Pascal, “ogni ormeggio ci sfugge continuamente” e dobbiamo rassegnarci a convivere con la più grande contraddizione: a fianco dell’incertezza etica, fatto costitutivo ineliminabile di noi esseri umani in quanto animali sociali, ci sarà sempre un moto e uno slancio per cristallizzarla in qualcosa di stabile. Il pregiudizio, se privato della possibilità di mutare in armonia con la cosmologia,  diventa un elemento dissonante nel rapporto con il mondo e, inevitabilmente, assume i connotati che Treccani delinea.

Il libro di Remotti in cui, dialogando fittiziamente
con il Papa,espone le ragioni del relativismo culturale

Si capisce bene, a questo punto, la celebre affermazione di Popper per cui “l’osservazione non è mai neutra, ma è sempre intrisa di teoria” o, si potrebbe aggiungere, di pregiudizi: senza di essi (e senza cosmologie relative), tuttavia, non sarebbe possibile costruire alcun discorso e alcuna società.

In conclusione, se queste parole hanno avuto il pregio di fare riflettere ciascuno sulla propria cosmologia di riferimento, potremmo avere, d’ora in avanti, una visione più indulgente sul fenomeno del “pregiudizio”, in quanto elemento costitutivo della specie Homo Sapiens Sapiens. Indulgenti nei suoi confronti, certamente, ma non nelle sue pessime conseguenze: il pregiudizio va compreso, non difeso.

Homo sapiens, un’unica specie
declinata in infinite modalità culturali

Giovanni Tavazza

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