Nel 1967 Dino De Laurentiis dà il via alla produzione di un film collettivo chiamato “ Le Streghe”. Si tratta di un’opera cinematografica composta da cinque episodi, ognuno dei quali girato da un regista diverso, ma tutti aventi come protagonista Silvana Mangano, premiata poi come migliore attrice con il David di Donatello, che interpreta virtuosamente cinque donne differenti, magiche, indipendenti e forti: delle “streghe” come le definisce suo marito, lo stesso De Laurentiis.
Il primo episodio in ordine di pellicola è di Luchino Visconti ed è intitolato “La strega bruciata”. Mette in scena una metafora intelligente della vita di chi si nutre di apparenze e di chi le subisce, scatenando i sentimenti contrastanti di un pubblico crudele nei confronti di un’attrice di successo, che pensa di essere giunta in casa di “amici” per passare una piacevole serata in Austria, lontano dai riflettori, e che invece scopre di essere in un covo di vipere invidiose. E’ la descrizione sensibile di un personaggio che soffre inconsapevolmente di una grande angoscia interiore. Lascia un punto interrogativo sulla crudeltà di uomini e soprattutto donne, che spesso si comportano in modo inumano tra di loro: vittime e carnefici anziché alleate.
Il secondo e breve episodio si chiama “Senso Civico”, di Mauro Bolognini.
Qui la narrazione si sposta a Roma e il protagonista è Alberto Sordi, un camionista ferito soccorso da una donna bella, ambigua e senza nome.
L’episodio numero quattro è di Franco Rossi, “La siciliana”: l’incarnazione degli stereotipi della donna del Sud, un preciso ritratto di tragedie, drammi e tradimenti che però rende perfettamente l’idea dell’importanza delle passioni nella vita.
L’ultimo episodio, per la regia di Vittorio De Sica, ha il titolo di “Una sera come le altre”, sarcastico riassunto di una vita di coppia che si sta spegnendo a poco a poco: Giovanna, moglie annoiata, e Charlie, un marito altrettanto noioso e pignolo interpretato da Clint Eastwood. Piero Tosi realizza dei costumi degni di nota.
Silvana Mangano in una scena del mediometraggio “Una sera come le altre”
di Vittorio De Sica
E’ ora tempo però della storia numero tre, che ho tralasciato volutamente dall’elenco, perché è quella che ha ispirato l’articolo di oggi: “La Terra vista dalla Luna”, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, è il suo primo film a colori, girato nelle periferie di Roma per lui molto care. Il racconto doveva essere pubblicato dallo stesso autore con il nome di “Il buro e la bura”, termine dialettale che in romanesco significa “rozzo zoticone”. Buro è il “burro” ed erano chiamati così proprio i pastori che giungevano dalla campagna all’Urbe per vendere questo latticino. Secondo un’altra etimologia “bure” è invece il manico dell’aratro.
Ad ogni modo torniamo alla trama: il mediometraggio rappresenta le gesta di Totò in veste di Ciancicato Miao e del figliolo Baciù (Ninetto Davoli) in cerca di una donna che possa risolvere tutti i loro problemi e prendere il posto della defunta Crisantema, morta con un piatto degno di Agrippina: funghi avvelenati. Dopo diverse peregrinazioni, la coppia riesce a incontrare un’anima femminile, una sorta di dea dai capelli verdi: Assurdina. E’ l’inizio di nuove avventure.
In un sognante e disincantato mondo rurale senza alcun riferimento temporale preciso, i personaggi si muovono illogicamente e in apparenza in modo contraddittorio. Il genio pasoliniano ha l’intenzione di rielaborare il linguaggio borghese, decostruirne i concetti e lasciare allo spettatore il compito di guardare con nuovi occhi (come se stessimo osservando la realtà da un altro punto di vista, tipo quello lunare, o come se fossimo su Venere, diremmo noi di “Spring on Venus”).
Ecco quanto dice Pasolini stesso del personaggio di Ciancicato Miao: “La mia ambizione era proprio quella di strappare Totò al codice, cioè decodificarlo. Quale era il codice attraverso cui si poteva interpretare Totò allora? Era il codice del comportamento dell’infimo borghese italiano, dell’infima borghesia portata alle sue estreme espressioni di volgarità e aggressività, di inerzia, di disinteresse culturale. Totò innocentemente, faceva tutto questo, vivendo parallelamente […] un altro personaggio che era al di fuori di tutto questo. Però il pubblico lo interpretava mediante questo codice. Ed allora io, per prima cosa, ho tolto a Totò tutta la sua cattiveria, tutta la sua aggressività, tutto il suo teppismo, tutto il suo fare sberleffi alle spalle degli altri. Questo è scomparso completamente. Il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi, non fa le boccacce dietro a nessuno.” (Tratto da un’intervista a “La Repubblica” nel 1974 e pubblicata il 3 agosto 1976).
Cambiare i connotati a Totò significa tentare di costruire una nuova narrativa. Il film vuole esprimere una creatività dissacrante, contro la logica imperante della società che sa comportarsi solo seguendo il copione del nonsense diventato norma della società arida di sentimenti, ma ricca di feticci, consumista e individualista. “La vita è un sogno e gli ideali stanno qua (sotto la suola delle scarpe)”.
Sarà stata la musica di Ennio Morricone ad ammaliarmi (per gli altri episodi le note sono di Piero Piccioni) o i colori carichi, quasi alieni, della fotografia o forse l’ironia perfetta di Pasolini, la costruzione di una trama intrigante e la bravura di Totò, ma tra tutti gli episodi, questi ultimi 31 minuti surreali sono quelli che mi sono rimasti più impressi per incipit e finale e voglio lasciarvi il testimone.
La favola inizia così: “Visto dalla Luna, questo film che s’intitola appunto “La Terra vista dalla Luna” non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla Terra, sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo Pier Paolo Pasolini”. Le prime scene si svolgono in un cimitero, il finale, invece, ispirato alla filosofia indiana, è tragicomico all’inverosimile e porta forse a prendere le distanze dall’epilogo stesso. Ed ecco la fine, che fatica ad andarsene dalla mia impalpabile materia grigia dove si è ancorata:
“Morale: essere morti o essere vivi è la stessa cosa.”
Frame tratto dall’ultima scena del mediometraggio “La Terra vista dalla Luna”
di Pier Paolo Pasolini
Alessandra Busacca