L’auriga e il gladiatore: due campioni di Roma a confronto

Nel mondo romano, le corse di carri e le lotte fra gladiatori furono definite entrambe artes ludicrae, cioè pratiche disdicevoli riservate agli infames, relativamente alle quali i Romani facoltosi avevano l’obbligo di organizzare spettacoli, ma il paradossale divieto di partecipare (Tertulliano, De Spect., XXII, 2; Senatus consultum de Latinarum, 11, 9-14 (AE 1978, 145= EAOR III, n.2). Dalla Tabula Heracleensis, datata alla fine del I secolo a.C., si apprende infatti che gli attori e le persone legate al mondo dello spettacolo non potevano accedere alle magistrature municipali ed entrare nell’ordine dei decurioni nelle città di diritto romano (CIL, I2, 593= ILS, 6085= EAOR, III, n.1). Durante i principati di Augusto e Tiberio furono infatti presi provvedimenti contro i membri dell’aristocrazia tentati dal circo, dall’anfiteatro e dal teatro. Tiberio, in particolare, vietò a senatori e cavalieri il matrimonio con individui provenienti dal mondo delle arene e con i loro discendenti, misura già menzionata dalla lex Iulia de maritandis ordinibus e dalla lex Papia Poppea. Tuttavia, sebbene aurighi e gladiatori appartenessero in egual modo alla classe degli infames, fra gli uni e gli altri esistettero delle differenze sostanziali, che questo articolo si accinge a prendere brevemente in considerazione. 

1. Origini e differenze culturali

Dettaglio del Mosaico del gladiatore, Villa Borghese, Roma

Anzitutto, il fenomeno gladiatorio, a differenza della corsa circense, non sarebbe derivato in maniera diretta dalla cultura rituale ellenica, ma da una commistione di influssi greci ed etrusco-italici. Come attestano Tertulliano e Virgilio di Servio, la gladiatura si affermò come rito finalizzato al sacrificio umano (pratica da tempo presente nel mondo latino) (Tertulliano, De Spect., XII, 1-4; Viriglio di Servio, Aeneis., X, 519), ricalcando però i duelli in onore dei defunti già in uso nella tradizione ellenica, che venivano svolti unicamente a scopo dimostrativo (Omero, Il., XXIII).  Perciò, mentre l’auriga rimase una figura propriamente greca, spesso conosciuta anche tramite le sculture votive e le ceramiche dipinte, il gladiatore assunse un carattere decisamente romano. In Grecia non esistette una figura paragonabile ad esso, troppo lontano da un comune lottatore o atleta. Quest’ultimo nell’intero corso della storia di Roma, non gareggiò mai nudo, ma solo con l’armatura di una specifica categoria, non fu mai un cittadino (se non nel caso eccezionale delle esibizioni di Commodo) e combatté sempre con lo scopo di uccidere. L’auriga e il gladiatore nacquero così da due concezioni diametralmente opposte dell’esercizio della forza. Se per un greco l’allenamento del corpo era volto a mantenere un equilibrio fisico e mentale, celebrato attraverso l’ideale del kalos kai agathos, l’antica virtù romana si esprimeva nel certamen, il combattimento. Come afferma Massimo Fini “i Romani non concepivano l’attività ginnica e sportiva se non finalizzata all’addestramento militare. C’era una sorta di dissociazione fra corpo e spirito: il primo, di rango inferiore, era nettamente separato dal secondo e le sue qualità acquistavano valore solo nella battaglia” (Fini, 1993). L’esercizio fisico fine a se stesso era quindi considerato indice di mollezza ed effeminatezza. Al centro della cultura ellenica invece, vi era l’agon: “il gioco”, “il concorso”, “la gara”, che poteva assumere un carattere atletico o artistico. Il costume dei Greci celebrava dunque un’idea di mascolinità in cui la prestanza e la bellezza fisica si armonizzavano, fondendosi a loro volta con sensibilità, intelligenza, qualità spirituali e morali. Per i Greci, la corporeità virile era sinonimo di superiorità intellettiva ed etica. Per i Romani, era soltanto il primo di questi tre elementi ad assumere importanza. Vien da sé, che mentre nel mondo greco furono i nobili a prendere parte alle manifestazioni atletiche e teatrali, estromettendo i ceti meno abbienti, i Romani di grande ingegno e cultura si tennero lontani dagli spettacoli, considerandoli un genere per le masse ignoranti e plebee (Cicerone, Ad Familiares, VII, 1). 

2. Condizione economica e sociale

A tali differenze di natura culturale se ne aggiunsero altre connesse a molteplici fattori: economia, religione, condizione sociale.  Si parta dalla categoria dei gladiatori: essa comprendeva condannati a morte, forzati (ovvero prigionieri costretti a combattere a causa di una particolare prestanza fisica ma non sottoposti a pena capitale), schiavi e volontari (liberi e affrancati), ovvero coloro che entravano nell’arena per ragioni prettamente economiche. I volontari che decidevano di entrare in una palestra gladiatoria (i c.d. autocrati depugnandi causa (LIV., XXVIII, 21, 2-3) dovevano rilasciare una dichiarazione davanti a un tribuno della plebe. In cambio, secondo la lex Italiacensis, combattendo per un periodo di tempo limitato, ricevevano un premio di 2.000 sesterzi, che poteva essere portato a 12.000, in caso di rinnovo del giuramento dopo il termine degli obblighi contrattuali. Tuttavia, da quel momento essi rinunciavano ai propri diritti di cittadini diventando di proprietà di un lanista, risiedendo presso il ludus (la palestra) e abbandonando il nome originario per adottarne uno da battaglia (Arena, 2020). Le ricerche epigrafiche mostrano che i cognomina dei gladiatori esaltavano spesso virtù belliche (Ferox, Maximus, Triumphus), particolari caratteristiche fisiche (Ampliatus, Aequoreus, Aptus) o la loro origine (Germanicus). In altri casi venivano desunti da figure mitologiche. Teoricamente, schiavi e volontari potrebbero essere distinti epigraficamente a seconda dell’impiego di un’onomastica specifica: gli schiavi di norma utilizzavano soltanto un cognomen assegnatogli presso il ludus, mentre i liberi impiegavano i tria nomina, ma poteva accadere che un libero o un ex schiavo continuasse ad utilizzare il nome da gladiatore. Ragion per cui, secondo Robert, la maggior parte dei combattenti ricordati negli epitaffi era costituita da volontari e non da schiavi, come comunemente si crede (Robert, 1940). Un futuro gladiatore era tenuto a dichiarare tramite una formula prestabilita di essere disposto a uri, vinciri, verberari, ferroque necari (essere bruciato, vinto, percosso e ucciso con la spada), doveva superare una prova rituale prima di divenire gladiator legiptimus e seguire un duro addestramento (Savi, 1980). L’ammissione in una palestra gladiatoria (sebbene offrisse una possibilità di riscatto economico e in alcuni casi di sopravvivenza) implicava pertanto una consacrazione agli inferi (sacramentum), cosa che avrebbe impedito a qualsiasi romano di famiglia benestante di partecipare alla vita politica. Per questo motivo gli autocrati erano equiparati ai suicidi e fin dall’età cesariana erano esclusi dai senati locali, allo stesso modo dei lenoni e degli attori. Patrizia Arena ricorda a tal proposito il caso di Sarsina, in cui un privato cittadino non volle che i gladiatori “per scelta” fossero sepolti presso un suo terreno, donato alla collettività per usi funebri (Lazzarini, 2008). Un gladiatore, non era semplicemente colui che barattava l’onore e la libertà con il guadagno economico (cosa che valeva per un auriga), ma che addirittura era disposto a uccidere e a farsi uccidere per esso. Naturalmente anche le corse di carri potevano diventare uno spettacolo particolarmente violento, nel momento in cui i partecipanti rischiavano la propria vita, ma quand’anche un cocchiere fosse stato sbalzato al di fuori del carro, essendo trascinato e calpestato dai cavalli si sarebbe trattato di una terribile fatalità. Nei combattimenti gladiatorii, per contro, non si gareggiava per competere ma per una questione di vita o di morte. Mentre l’auriga, mero retaggio della cultura ellenica, ebbe semplicemente larga fortuna fra i Romani e fra le genti da loro conquistate, il gladiatore fu l’incarnazione di un paradosso proprio della cultura romana. 


Mosaico dell’Auriga, Villa del Baccano (193-235 d.C.)

Per ciò che concerne invece il mondo delle corse, Meijer afferma che più della metà delle iscrizioni conosciute recanti nomi di aurighi, riporta esplicitamente che questi ultimi erano schiavi o liberti. Nella maggior parte dei casi, inoltre un auriga era un figlio (non riconosciuto giuridicamente) di schiavi legati ad una scuderia. Dunque vi accedeva naturalmente, prendendo confidenza con i cavalli fin da bambino (Meijer, 2009). Ciò non significa che il mondo delle corse non attirasse “volontari”. Basti pensare che furono emanate delle leggi per impedire ai Romani più abbienti di intraprendere la carriera d’ auriga. Nel 19 e nell’11 a.C. per esempio, ai liberi fu proibita la pratica delle arti disdicevoli prima del venticinquesimo anno di età, in modo da impedire a qualsiasi aspirante guidatore di divenire un auriga di successo. Ad ogni modo, si tenga presente che il rapporto che legava l’auriga ad una scuderia era di natura prettamente economica. Esso prevedeva che la liberazione avvenisse in seguito al pagamento di una cifra prestabilita per la quale probabilmente bastavano poche vittorie. Di norma gli schiavi venivano liberati solo dopo il trentesimo anno di età, ma un auriga di successo faceva eccezione poiché era in grado di ottenere la cifra pattuita per il suo riscatto in tempi brevi, con premi che oscillavano fra i 15.000 e i 60.000 sesterzi. Se un padrone temporeggiava troppo nel concedere la libertà al suo cocchiere, i tifosi potevano intervenire e rimproverarglielo e inoltre, una volta libero, l’auriga poteva negoziare con la scuderia le modalità di spartizione del montepremi (Meijer, 2009). Nel caso dei guidatori più quotati poi, erano le scuderie stesse a lanciare offerte molto cospicue per aggiudicarseli. Ben diversa doveva essere la condizione di un consacrato agli inferi, il quale manteneva con la propria palestra non solo un legame di tipo economico ma anche religioso. Un gladiatore che fosse fuggito dal proprio ludus prima del termine del contratto avrebbe infranto un patto di natura sacra. Accordo che, non a caso, doveva essere rinnovato alla fine di tutti gli oneri contrattuali.

Non rimane che interrogarsi sulla funzione della componente religiosa nel legame fra lanista e gladiatore. Nella storia di Roma molti accordi di natura giuridica e politica ebbero una forte valenza religiosa: trattati di pace, accordi militari, alleanze con popoli amici e città vinte. La sacralità di questi patti fungeva da deterrente per le eventuali violazioni e probabilmente fu così anche per il giuramento gladiatorio, che potrebbe essersi posto (assieme alla statalizzazione delle palestre all’inizio dell’età imperiale) come un efficace mezzo per esercitare un controllo sui gladiatori. Una soluzione che avrebbe giovato, prima che allo stato, al singolo lanista o al funzionario cui veniva affidata la gestione del ludus. Così, ribellarsi al giuramento gladiatorio significava sfidare Roma e attirare su di sé l’ira delle divinità ctonie. Per tali motivi, un gladiatore non avrebbe goduto della medesima libertà di un auriga. Le scuderie, del resto, non vennero mai sottoposte a un processo di statalizzazione o alla gestione di una procuratela come accadde per le palestre. Esse rimasero organizzazioni private, saldamente in mano ai domini factionum per tutta la storia di Roma. Pertanto, se i Romani riuscirono gradatamente a stroncare sul nascere i pericoli rivoluzionari insisti nelle scuole gladiatorie, probabilmente non contennero mai davvero quelli presenti presso le factiones e fra le fila dei loro tifosi.

Rebecca Goldaniga di “Scacchiere storico

Sharing is caring

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *