Mettere in versi il vuoto e l’oblio: una poesia di Antonio Gamoneda

L’accusa è rimasta per troppo tempo dentro la tua lingua. Sei


tardivo come le sostanze destinate alla dolcezza.

Lecchi la mia pelle fino a che germogliano segni e i tuoi singhiozzi formano delle cri-


pte nel mio cuore

Però la mia pietà è abitata da animali molto svelti, da ani-


mali persuasivi e altri inclini alla fugacità

Solo tu sei esteriore e orribile: lui che rubò i miei atti e non dorme.


Lui che è cieco nella serenità.

Chi parla in te? Chi è la forma del tuo viso?

Guardati da chi si alimenta col profumo del suicidio. Guarda-


ti da me perché la negazione ha toccato il mio corpo.

La tua anima è affaticata però sei alto nella fatica: parli a dèi estinti.

Non c’è somiglianza in te.  C’è infezione e fuoco dentro la tua lingua
E la purezza è la tua malattia.

Sali fino a un luogo di spini; tocchi il bordo del crepuscolo.

Sei tardivo come le sostanze destinate alla dolcezza. Non c’è somiglianza in te.

Io ho messo giorni nei miei occhi e le mie azioni sono come l’odore
Della resina in un luogo profondo.

Solo luce vidi nelle stanze della morte. *

Il testo proposto è una poesia scritta da Antonio Gamoneda (Oviedo, 1931) e fa parte del libro “Descripciòn de la mentira”, uno dei più famosi del poeta, pubblicato nel 1977.

La poesia non ha un titolo ed è divisa da spazi bianchi che delimitano e segnano le interruzioni all’interno del testo. Gli spazi bianchi dividono la poesia in quattro blocchi composti da un totale di ventuno versi e contribuiscono a dare un ritmo alla composizione segmentando il testo.

La versificazione è irregolare, libera, tipica della metrica moderna, caratterizzata, secondo la definizione di Rafael Nuñez Ramos (1992: 118) dal “requisito imposto di non costituire modelli chiusi di distribuzione fonica e melodica della poesia”. In effetti, la nostra poesia è un insieme di proposizioni, affermative e interrogative, in cui la fine della proposizione spesso non corrisponde alla fine del verso: frequenti sono infatti gli enjambement, spesso a metà parola, che contribuiscono a creare un senso di frammentazione.

Immagine che contiene persona, uomo, facciata, guardando

Descrizione generata automaticamente

Antonio Gamoneda 

In ogni poesia si crea una situazione comunicativa immaginaria tra colui che chiamiamo enunciatore lirico e il destinatario lirico. Questa nostra poesia, prima di tutto, è una poesia in cui appare l’”io”, cioè la prima persona, che si manifesta il più delle volte attraverso gli aggettivi possessivi (“la mia pelle”, “il mio cuore”, ” la mia misericordia “,” i miei atti “,” il mio corpo “, “i miei occhi”,” le mie azioni “).

L’io non è un io fittizio, non si maschera da personaggio: si tratta del soggetto poetico. Questo io, tuttavia, non è necessariamente solo un soggetto autobiografico, ma, esprimendo emozioni condivisibili dal resto dell’umanità, potrebbe trascendere questa condizione diventando universale. Insomma, questo “io” potrebbe anche essere inteso come un “noi”.

Quel “tu” è una presenza costante, continua e fissa lungo tutta la poesia (“la tua lingua”, “sei tardivo”, “lecchi la mia pelle”, “i tuoi singhiozzi”, “sei esteriore”, “in te “,”la tua faccia “,” tieniti “,”la tua anima”,”la tua lingua”,”la tua malattia”,”sali”,”tocchi”ecc.). Ma chi è questo “tu”? Questo punto è molto interessante perché questo “tu” è sempre l’io, il soggetto. E’ un altro modo in cui l’io viene chiamato, è l’io che parla a se stesso, è un tu autoriflessivo. 

Tuttavia, questo “tu” non si configura soltanto come un “desdoblamento del yo, sino como una alteridad en la que se construye un dialogo implicito, en que lo perdido, lo olvidado, se recupera en cuanto tal pérdida, en cuanto tal olvido” (“uno sdoppiamento dell’io, ma come un’alterità nella quale si costruisce un dialogo implicito nel quale, ciò che è perduto, obliato, si recupera in quanto perdita, in quanto oblio”).



Copertina del libro “Descripción de la mentira” di Antonio Gamoneda,
Abada Editores (2004)

La situazione dell’io è una situazione di straniamento, è un io spaesato, disorientato, che sembra non riconoscersi tanto che questo tu, a un certo punto, diventa un “lui”, una terza persona (“Solo tu sei esteriore e orribile: colui che rubò i miei atti e non dorme; / Lui che è cieco nella serenità.”).

In effetti, un sintomo di questo spaesamento, che è forse una sorta di depersonalizzazione, lo si può individuare nella domanda “Chi parla in te, chi è la forma del tuo viso?”. E se guardiamo alla prima parte della domanda “Chi parla in te?” e, più avanti nella poesia, nei versi “Parli con dèi estinti” o “C’è infezione e fuoco nella tua lingua”, possiamo dedurre che, in particolare, l’io non si riconosce nella lingua che usa.

Il tema del linguaggio è di fondamentale importanza nella poesia di Antonio Gamoneda. Dobbiamo ricordare che il poeta visse pienamente i quaranta terribili anni della dittatura di Franco che aveva usato e corrotto il linguaggio per i suoi scopi. Gamoneda cerca quindi, come afferma sempre Juan José Lanz (2010: 44), di costruire una nuova lingua in cui le parole possano riappropriarsi del loro significato esatto così da poter descrivere la verità. L’autore è alla ricerca di una lingua che faccia parlare l’oblio, che possa attuare “la recuperaciòn de los huecos que deja el recuerdo” (“il recupero dei vuoti che lascia il ricordo”, Lanz 2010: 45), e che faccia parlare il silenzio. Oblio e silenzio imposti dal regime durante così tanti anni di crudeltà. Nella nostra poesia, forse i grandi spazi bianchi di cui si parlava in precedenza possono essere intesi come una materializzazione grafica dell’assenza, delle lacune, del vuoto, dell’oblio.

Il linguaggio che usa Antonio Gamoneda non è facilmente comprensibile. È una lingua in cui i segni verbali diventano materiali, come suggerito da Juan Jose Lanz (2010: 54), e non “si riferiscono al loro significato, ma al loro referente” come notiamo quando il poeta, all’inizio della poesia, scrive: “Lecchi la mia pelle fino a che germogliano segni e i tuoi singhiozzi formano delle cripte nel mio cuore”. Questi segni creano un linguaggio, un discorso di “designificazione”, che pone domande, mette in dubbio e nega. Dice il poeta “la negazione ha toccato il mio corpo”.

Chiaramente tutto questo discorso poetico di Gamoneda si configura come un discorso figurativo, ricco di metafore (“la mia pietà è abitata da animali molto svelti”), similitudini (“Sei tardivo come le sostanze destinate alla dolcezza”), allegorie. Queste figure retoriche contribuiscono a creare una serie di immagini piene di vita, a volte quasi incomprensibili, molto forti e brevi come pennellate scagliate su una tela.

L’ultima immagine della poesia forse esprime la consapevolezza del poeta che la morte è presente e contemporanea alla vita, cioè che più la vita avanza, più la morte cresce e si fa presente: “Solo luce vidi nelle stanze della morte”.

E quale migliore conclusione di una poesia che terminare con la parola che è l’emblema della fine di tutto: “morte”.

Testo originale:

La acusación estuvo demasiado tiempo dentro de tu lengua. Eres

 tardío como las sustancias destinadas a la dulzura

Lames mi piel hasta que brotan signos y tus sollozos forman bóve-

das en mi corazón

pero mi piedad está habitada por animales muy esbeltos, por ani-

males persuasivos y otros versados en la fugacidad.

Sólo tú eres exterior y horrible: el que robó mis actos y no duerme;

el que está ciego en la serenidad.

¿Quién habla en ti, quién es la forma de tu rostro?

Guárdate de quien se alimenta con el perfume del suicidio, guárda-

te de mí porque la negación ha tocado mi cuerpo.

Tu alma está fatigada pero eres alto en la fatiga: hablas a dioses ex-

tinguidos.

No hay semejanza en ti: hay infección y fuego dentro de tu lengua

y la pureza es tu enfermedad.

Subes hasta un lugar de espinos; tocas el borde del crepúsculo.

Eres tardío como las sustancias destinadas a la dulzura. No hay

semejanza en ti.

Yo he puesto días en mis ojos y mis acciones son como el olor de la resina

en un lugar profundo.

Sólo vi luz en las habitaciones de la muerte.

Giulia Novelli

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