Nietzsche: la follia come conclusione di un itinerario di pensiero

<<Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare in te>> (F. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”)

Quando Friedrich Nietzsche muore a Weimar nel 1900, completamente estraneo a se stesso perché scivolato tra le braccia della follia dall’anno 1889, è probabilmente l’intellettuale, il pensatore, più noto in Europa. La gente comincia ad apprezzare i suoi scritti, a riflettere sulla loro portata epocale non soltanto per la storia del pensiero, ma anche per l’intera società europea che si appresta a vivere un secolo molto travagliato. E pensare che proprio l’incomprensione del pubblico verso di lui, verso il suo pensiero, verso i suoi scritti, è stato uno dei fattori principali che ha portato Nietzsche al collasso mentale.
Con un po’ di nero umorismo si potrebbe quasi dire che il filosofo tedesco è dovuto impazzire per attirare su di sé l’attenzione di una cultura europea che era ancora troppo imbevuta di positivismo e che nutriva una cieca fede nell’idea di progresso. Nietzsche, invece, sosteneva che non esistono fatti, ma solo interpretazioni, e che il tempo non è da considerarsi come una linea retta che ci porta verso un fine, ma è un circolo in cui costantemente tornano situazioni, valori, angosce, miserie e grandezze (l’idea dell’eterno ritorno dell’uguale).

L’Europa, ancorata ai suoi valori atavici imbevuti di cristianesimo che per Nietzsche erano ormai vuoti e privi di senso, non era ancora pronta a sgretolarsi sotto i colpi del “martello di Nietzsche” (egli infatti diceva di filosofare con il martello), ma di lì a poco lo sarebbe stata. Ciò che scosse le coscienze fu la fine dell’itinerario filosofico di questo pensatore che non si arrese all’anonimato, allo spirito del gregge, ma scelse piuttosto l’annullamento di se stesso facendo ciò che gli altri non avevano il coraggio di fare: non volere affatto piuttosto che volere il nulla.  

In un certo senso era quasi destino che una personalità come quella di Nietzsche finisse per dissolversi in se stessa. Per Nietzsche il valore delle sue idee, delle sue convinzioni, è sempre stato al di là di ogni dubbio. Schierandosi palesemente contro le opinioni dominanti del periodo, Nietzsche assumeva una posizione “inattuale” nei confronti della cultura europea del tempo e ciò non poteva portare che ad un ostracismo nei confronti del suo pensiero, ma al tempo stesso conferiva al suo Io, e quindi a se stesso, una gravosa missione che a posteriori può dirsi compiuta: essere uno scuotitore di coscienze.
Il prezzo di ciò è stato rinunciare a se stesso. Una rinuncia, sia ben chiaro, voluta, perché per Nietzsche, la volontà, unico termine del maestro Schopenhauer che riterrà valido per tutta la vita, è ciò che permette all’uomo di superarsi, di andare oltre a se stesso, di diventare Übermensch appunto, ossia: un “oltreuomo”.

La rinuncia alla consapevolezza di sé, lo scivolare nella follia come tappa finale di un percorso che ha come obiettivi scuotere le coscienze e portare gli uomini di fine Ottocento – inizio Novecento ad abbandonare il culto di un Dio ormai morto, assassinato da quegli stessi uomini che lo hanno creato, che hanno dissipato il valore del suo concetto fino a tramutarlo nel nulla. Evitare quindi il culto del nulla, il nichilismo, quell’”ospite inquietante” (utilizzando le parole di Umberto Galimberti) che invece avrebbe trovato terreno fertile in Europa, soprattutto nella sua Germania (anche se lui si vantava di non avere una goccia di sangue tedesco in vena e di discendere da una nobile famiglia polacca), che lo avrebbe, paradossalmente, ritenuto il vate di tutto ciò che invece tendeva a condannare. Il nazismo, ad esempio, grazie anche alla scellerata intermediazione della sorella di Nietzsche, Elizabeth, si appropriò del pensiero nietzschiano stravolgendolo, in particolar modo facendo leva sulla errata interpretazione di due concetti chiave del suo pensiero: l’Übermensch e la volontà di potenza.



Ultima fotografia di Friedrich Nietzsche (1899)

L’inizio del tracollo mentale di Nietzsche può essere fatto risalire al 3 gennaio 1889. Mentre si trovava in piazza Carignano a Torino, dove risiedeva da circa un anno, nei pressi del suo alloggio vide un cavallo che tirava una carrozza frustato a sangue dal cocchiere e dopo aver mosso delle violente rimostranze all’uomo, si avvicinò all’animale, lo abbracciò e lo baciò e dopo avergli sussurrato qualcosa all’orecchio – alcuni ipotizzano che il filosofo gli chiese scusa per come gli esseri umani trattavano gli altri esseri viventi – , cadde a terra urlando in preda agli spasmi. Dopo questo primo episodio pubblico di pazzia, la salute mentale di Nietzsche non fece che peggiorare.
A questo periodo risalgono i cosiddetti “biglietti della follia”, una serie di lettere scritte ad amici e colleghi che rivelano la stato ormai alterato della sua mente. Tra queste, la più famosa è sicuramente quella che scrisse a Jacob Burckhardt, il famoso storico dell’arte che Nietzsche aveva conosciuto quando faceva il professore a Basilea. Nella lettera, datata 6 gennaio 1889, si legge: << […] in fin dei conti sarei stato molto più volentieri professore a Basilea piuttosto che Dio, ma non ho osato spingere il mio egoismo privato al punto di tralasciare per colpa sua la creazione del mondo. […] Quello che è spiacevole e che mette a prova la mia modestia è che in fondo io sono tutti i nomi della storia.>>(F. Nietzsche, “Epistolario 1885-1889”). Questi biglietti, a dimostrazione che si stava allontanando sempre di più da se stesso oltre che dalla realtà, erano firmati ogni volta da pseudonimi diversi, tra i quali: Dionisio – Zagreo, Il Crocifisso, L’Anticristo. A parte l’allusività degli pseudonimi prescelti, sembra che Nietzsche avesse preconizzato la follia come meta finale della sua vita e del suo pensiero. Più volte aveva dichiarato che l’unico modo di essere filosofi fino alla fine è quello, ad un certo punto, di rimanere in silenzio, quello stesso silenzio cui lo condannerà, fino alla morte, la sua condizione certificata di “matto”.
<<A tutte queste domande trovai, osai, in me molte mie diverse risposte, differenziai epoche, popoli, gradi gerarchici d’individui, specificai il mio problema; dalle risposte nacquero nuove domande, indagini, supposizioni, probabilità: arrivai infine ad avere una mia propria regione, un mio proprio terreno, un mio mondo, tutto taciturno che cresce e fiorisce a somiglianza di quei segreti giardini, dei quali a nessuno è concesso avere un qualche presagio… Oh come siamo felici, noi uomini della conoscenza, posto che si sappia almeno tacere abbastanza a lungo>>  (F. Nietzsche, “Genealogia della morale”). 

Caduto ormai in un mutismo quasi totale e, dal 1892, incapace di riconoscere le persone che gli stavano accanto salvo in qualche raro momento di lucidità, nel 1897 fu portato con sè dalla sorella Elizabeth a Weimar, dove morì per una polmonite il 25 agosto del 1900. 



Edvard Munch, “Ritratto di Friedrich Nietzsche” (1906)

Così Rudolf Steiner, che collaborava con la sorella di Nietzsche come curatore delle opere del filosofo che non erano ancora state pubblicate, descrive il suo primo incontro con Nietzsche, completamente immerso nella follia: <<Là, disteso sul divano, giaceva l’Ottenebrato, con la sua fronte mirabilmente bella di artista e di pensatore. Erano le prime ore del pomeriggio. Gli occhi, pur essendo spenti, apparivano ancora pervasi d’anima; ma di quanto li circondava non accoglievano più che un’immagine a cui era ormai negato l’accesso all’anima. Stavamo dinanzi a lui, ma Nietzsche non lo sapeva. Eppure si sarebbe ancora potuto credere che quel volto spiritualizzato fosse l’espressione di un’anima la quale, nel corso del mattino, avesse intensamente pensato e volesse ora riposare un momento. Credetti che la scossa interiore da me provata si trasformasse in comprensione per il genio il cui sguardo mi fissava senza vedermi. La passività di quello sguardo, lungo e fisso, sprigionò la comprensione del mio proprio sguardo, che in quel momento poté lasciar agire la forza animica dell’occhio, senza che l’altro occhio lo incontrasse>>.

Tra le filosofie che si sono susseguite nella storia del pensiero filosofico, quella di Nietzsche risulta essere una delle più totalizzanti: essa coinvolge ogni aspetto dell’individuo, è scomoda, irritante, costringe a mettersi in gioco completamente.
Friedrich Nietzsche in prima persona non fece altro che mettersi in gioco con tutto il suo essere: il prezzo da pagare e, allo stesso tempo, il naturale epilogo della sua vicenda è stata la perdita, la disintegrazione di quel Sé che si era impegnato fino in fondo nella sua missione filosofica: smuovere l’uomo europeo dal suo torpore facendogli abbandonare delle convenzioni secolari che ormai accettava acriticamente e soltanto in virtù di una tradizione che, per il filosofo tedesco, appariva ormai come morente. 

Giuseppe D’Alto

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