In America, negli anni Novanta, inizia a diffondersi una moda particolare, una subcultura irriverente e dai toni pastello, associata alla musica “grunge” in particolare di Courtney Love e per molti a quel tempo inaccettabile: l’estetica “Kinderwhore”.
Il termine, coniato dal giornalista Everett True, è composto dalla parola tedesca “Kinder”, che significa “bambino” e rimanda al campo semantico dell’infanzia e dall’inglese “whore”, cioè “puttana”.
Courtney Love
A primo impatto un neologismo di questo tipo può apparire del tutto fuori luogo: attribuire la sessualità alla fanciullezza, unire la malizia all’innocenza. Questa antitesi si traduce in un look che consiste in baby doll dresses, abitini bamboleggianti di velluto o vintage dagli anni ’60, e molto corti, scarpe Mary Janes con calze bianche alte oppure anfibi con collant sdrucite (cigarette burned tights).
Il must in ogni caso è l’abitino nero con il colletto bianco, diventato iconico perché indossato proprio da Courtney Love nei primi anni ‘90, ma non molto diverso dai mini abiti di Chanel ispirati alle suggestioni monacali che hanno caratterizzato l’infanzia della stilista.
Anche a Tokyo esisteva uno stile simile, lo stile Kawaii (“carino” in giapponese) che era definito anche “Lolita” proprio perché si riferiva a ideali come la dolcezza o la naïveté di alcuni vestiti femminili. L’aspetto “whore” era invece evidenziato dal make-up: il rossetto non era steso bene, i capelli erano spettinati e i vestiti sembrava dicessero che chi li aveva indossati “fucked all night and rolled out of bed the next morning” (Urban Dictionary, 30 Agosto 2006).
Ma il messaggio che si voleva trasmettere indossando un abito del genere è molto diverso da quello che si può pensare. Sarebbe un errore valutare uno stile del genere come una sterile tendenza fashion o un’affermazione di quei caratteri fanciulleschi e tipicamente femminili che prendono in considerazione l’ideologia patriarcale basata sull’idea di inferiorità della donna e su una sessualizzazione del corpo della donna.
La concezione estetica ed artistica “Kinderwhore” era geniale proprio per il fatto che sovvertiva un archetipo femminile: la bambolina con il vestito e le labbra a cuore.

Courtney Love e Dolly shoes
Infatti, proprio grazie a donne come Kat Bjelland e Courtney Love, iniziò a prendere forma un movimento filosofico e politico legato a questa moda, per certi versi simile a quello di alcune femministe di seconda ondata, e capace di stravolgere i canoni estetici relativi all’universo femminile di quel tempo. Diversa dall’iconica Barbie bionda e dalle unghie perfette, questa è una donna che si serve di questo immaginario per poi comportarsi esattamente al contrario e urlare a gran voce una rabbia fino a quel momento soffocata contro un mondo che si è definito sulle leggi dell’uomo bianco eterossessuale e che ha sempre osteggiato la libertà sessuale delle donne. Un modo per uccidere le insicurezze, superarle e presentare l’immagine di una donna fiera della sua ingenuità, che non era “finta” come avrebbe definito, a torto, chi si rivelava succube dell’ideologia patriarcale, ma era fierezza e “libertà di agire”, “contravvenzione a regole imposte e a caratteri autoritari”, era un messaggio di libertà delle donne, verità e autenticità.
Le kinder-whores esibivano volontariamente un’immagine remissiva, per poi invece sostenere che non erano le bambole di nessuno e che, sprezzanti, provocavano l’uomo dicendo: “You want the female sex? Here you go. Here it all is. You can’t even handle it” oppure “Kinderwhore was a strong feminist statement.” (dall’intervista a Mish Barber-Way nell’articolo per i-D Vice intitolato “My Kinderwhore education”, https://i-d.vice.com/en_us/article/vbep4a/my-kinderwhore-education).
Inoltre, in campo musicale, questo atteggiamento rivoluzionario si deduceva perfettamente dalle parole delle canzoni e dal tipo di sound rock. I testi erano femministi e mettevano in crisi i tipici ideali di bellezza dell’epoca e soprattutto i codici di comportamento socialmente accettati.
Ne è un esempio il manifesto sottostante delle Riot Grrrl, sottogenere tematico del punk rock originatosi dall’indie rock e dall’hardcore punk degli anni ‘90, più attivista e militante delle Kinder-whores, ma comunque affine dal punto di vista estetico:
“Ciao, volevo solo farti capire che io non:
-sorriderò
-mi comporterò stupidamente
-nasconderò il mio corpo
-fingerò
-mentirò
-starò in silenzio
per te. E che ogni cosa che farò la farò per me soltanto e non lascerò che tu mi derida o ti prenda gioco di me, non lascerò che tu mi insulti o abusi di me, o mi molesti o mi stupri mai più. Perché io sono una ragazza e io e le mie ragazze non abbiamo paura di te.”
La stessa Courtney dirà: “I would like to think – in my heart of hearts – that I’m changing some psycosexual aspects of rock music. Not that I’m so desirable. I didn’t do the kinderwhore thing because I thought I was so hot. […] My angle was irony” (https://www.rollingstone.com/music/music-news/courtney-love-life-without-kurt-81520/)
Il modello non è comunque da confondere con quello ormai sdoganato della “bad girl”, sebbene molto simile, ma fin troppo stereotipato.
Contro i modelli patriarcali anche alcuni uomini videro una rivoluzione nell’estetica Lolita. Un esempio è dato dall’allora compagno di Courtney Love, anch’egli cantante, il mitico Kurt Cobain, che amava sfoggiare abiti femminili, spesso anche durante le sue performances. Così facendo, provocava e metteva in discussione i pregiudizi da “macho” tipici di certi uomini.
La protesta era anche una manifestazione contro il fenomeno dello “slut-shaming”, che definisce l’atto di far sentire una donna colpevole o inferiore per determinati comportamenti o desideri sessuali che si discostino “dalla norma”. Ed effettivamente alcuni esempi di comportamenti per cui le donne sono sottoposte allo slut-shaming includono: violazioni del codice di abbigliamento socialmente accettato quando si vestono in modo sessualmente provocante, le richieste di accesso al controllo delle nascite e così via.
Alcune femministe definiscono lo slut-shaming come un processo in cui le donne vengono attaccate (e non solo da uomini) per la loro trasgressione dei codici di condotta sessuale, ovvero ammonite per comportamenti o desideri che sono più sessuali di quanto la società trovi accettabile. Emily Bazelon dichiarerà che “Chiamare una ragazza puttana la avverte che c’è una linea: lei può essere sessuale, ma non troppo sessuale “.
Alla fine degli anni Novanta però lo stile kinderwhore inizia il suo tramonto. Sopravvive nella musica con i toni definiti “foxcore”, in alcune opere fotografiche dell’artista Petra Collins e qualche esemplare qua e là in alcune sfilate di moda, come quella di Prada dell’Autunno/Inverno 2017 ambientata in un vero e proprio dormitorio per ragazze, quella di Gucci nell’Autunno/Inverno 2016 o la primissima Meadham Kirchhoff nel 2012 (per saperne di più: http://feministflash.altervista.org/petra-collins/?fbclid=IwAR11A3LDFr4NxJpuU7bfZs1FS9nfiozZexLMJhxjOoBYD4s_d_52xFq5rdE).
Set di Prada per la sfilata A/W 2017 a Milano
Forse però non svaniranno mai le parole di una famosissima canzone di Patty Pravo, uscita non a caso nel 1968, anno di contestazioni femminili per eccellenza:
Tu mi fai girar
Tu mi fai girar
Come fossi una bambola
Poi mi butti giù
Poi mi butti giù
Come fossi una bambola
Non ti accorgi quando piango
Quando sono triste e stanca tu
Pensi solo per te
No ragazzo no
No ragazzo no
Del mio amore non ridere
Non ci gioco più […]
Alessandra Busacca