“Parasite”: un film sulla lotta di classe

Non riuscivo a prendere sonno dopo aver guardato “Parasite”, l’ultimo film del regista sudcoreano Bong Joon-ho, vincitore di quattro premi Oscar.  

C’era qualcosa di impercettibile che mi impediva di poggiare la testa sul cuscino, chiudere gli occhi e rilassarmi. C’era qualcosa nel profumo delle lenzuola appena fresche di bucato, nella pioggerellina incessante che colpiva dolcemente le finestre della mia camera, qualcosa che suscitava in me un senso di disagio. 

Poi, finalmente, ho capito. Era il senso di colpa. Il disagio di classe. Riconoscevo – mio malgrado – nella famiglia Park il privilegio della mancanza di preoccupazione. Ma facciamo un passo indietro. 



Locandina del film “Parasite” di Bong Joon-ho (2019)

L’opera cinematografica è, appunto, costruita attorno alla vita di due famiglie. I Kim, padre, madre e due figli (maschio e femmina), sottoproletari, che vivono in un tugurio addirittura al di sotto della linea del marciapiede. I Park, padre madre e due figli (maschio e femmina), alto-borghesi, che vivono in una villa ultraminimalista, affacciata su una collina. Le due famiglie saranno destinate ad incontrarsi quando il figlio dei Kim troverà lavoro come insegnante di inglese della figlia dei Park. Per mezzo di rocamboleschi sotterfugi e tattiche, il figlio dei Kim, ormai insediatosi in casa Park, riuscirà a far assumere i genitori e la sorella, spacciandoli rispettivamente per autista, governante e insegnante/terapista d’arte per il figlio dei Park, considerato un artista emergente. Ecco che i “parassiti” hanno attaccato il corpo sano. Se la prima parte del film assume i tratti della tragicomicità, la drammaticità invece irrompe in maniera decisiva nella seconda parte di “Parasite”, che si trasforma in un vero e proprio thriller, caratterizzato da guerra tra poveri, colpi di scena e da un finale inaspettato. 

“Parasite” è un film che rappresenta visivamente e cinematograficamente la lotta di classe: la macroscopica differenza di ambienti di vita delle due famiglie nonché l’approccio all’esistenza stessa mostrano l’appartenenza a due classi sociali opposte, il cui incontro sfocerà – immancabilmente – in conflitto. Perfino un evento climatico ordinario come un temporale evidenzia il divario di classe: mentre la casa dei Kim si ritrova completamente sommersa in un mare di melma e acqua putrida, il figlio minore dei Park si fa piantare una tenda da campeggio nel giardino. 

I Park esprimono quindi la noia, l’ingenuità e il perbenismo borghesi. I Kim, a loro volta, rispecchiano il sottoproletariato cosciente. 



La famiglia Kim in una scena del film

La coscienza di classe proletaria è evidente fin dall’inizio, fin da quando il figlio dei Kim si ingegna per “parassitare” i Park, sfruttando gli sfruttatori. Ma la coscienza di classe diventa epifania quando il signor Park esprime – sinceramente – tutto il suo disprezzo per quei poveri che odorano di metropolitana, di “ravanello vecchio”, di “straccio umido”. Da questo momento la coscienza di classe si trasforma in odio di classe. Odio di classe che, riprendendo le parole del poeta Edoardo Sanguineti, “deve essere restaurato. Perché loro ci odiano, dobbiamo ricambiare.”

Chi sono davvero i parassiti, ci chiede quindi Bong Joon-ho? 

Francesca Busacca

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4 commenti su ““Parasite”: un film sulla lotta di classe”

      1. Mi preparo un appunto, così domenica me lo guardo, altrimenti rischio di saltare un’altra settimana… 🙂

        Poi vi faccio sapere. (ma parli al plurale per via dell’ultimo articolo, per caso? 😜)

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