La relazione tra Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, come ogni relazione umana, è stata complessa e ricca di chiaroscuri. Ce la delinea con filologica chiarezza Francisco Rico nel suo saggio “Ritratti allo specchio. Boccaccio. Petrarca” (Antenore, 2012).
Il primo vero incontro, quello in cui poterono entrare un po’ in intimità, ebbe luogo a Padova nel 1351: Boccaccio aveva 38 anni e Petrarca 46, anche se il certaldese già conosceva per fama lo scrittore più anziano e, senza averlo ancora incontrato, sviluppò nei suoi confronti un sentimento di tale ammirazione che negli anni ‘40 scrisse una vita di Petrarca.
Per Boccaccio l’incontro con Petrarca è stato uno di quegli incontri che cambiano la vita, fu completamente galvanizzato, e iniziò un processo di conversione personale, letteraria e culturale che, come lui stesso ammette, lo spinse «in melius», a migliorarsi.
Copertina di “Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca)”,
Francisco Rico, Antenore (2012)
Dal punto di vista letterario, come ricorda Francisco Rico, sono grandi le differenze tra le opere di Boccaccio scritte prima dell’incontro, come “Filocolo”, “Fiammetta” e “Ninfale fiesolano” e quelle scritte dopo, ad esempio “De casibus”, “De mulieribus claris” e “De montibus”. Anzitutto, come salta immediatamente all’occhio, un cambiamento radicale è stato lo spostamento di baricentro dal volgare al latino, oltre allo sviluppo di un interesse verso l’antichità classica e verso temi più didattici e meno romanzeschi.
Il contributo centrale di Rico sta nell’aver osservato in filigrana questo rapporto ed averne evidenziato i tratti meno regolari e più tortuosi. Da una parte emerge un Boccaccio generoso, fedele, che nutriva quasi un culto nei confronti del suo maestro, dall’altra scopriamo un Petrarca un po’ avaro, diffidente e in molti casi altero. L’aretino, per esempio, non mostrò mai al suo discepolo alcune delle sue opere più importanti come “Africa”, “De viris illustribus”, “Secretum” o “De remediis”, ma lo informò solo oralmente del loro contenuto.
Boccaccio, invece, che si definì anche “servo” di Petrarca, non solo gli mostrò i suoi scritti, ma gli regalò anche testi di valore come il “De lingua latina” di Varrone, le “Enarrationes in psalmos” di Agostino, la “Pro Cluentio” di Cicerone e l’“Iliade” di Leonzio Pilato.
Una consuetudine interessante che caratterizzava il loro rapporto era quella di prestarsi dei manoscritti sui quali, per nostra fortuna, sono rimaste vergate le tracce di questi scambi. Una dimostrazione eloquente la troviamo in un manoscritto di Petrarca che contiene la “Naturalis Historia” di Plinio, il Parigino latino 6802.

Manoscritto Parigino latino 6802, f. 143v., dettaglio
Qui, in un passaggio del testo in cui Plinio parla del fiume Sorga che attraversa Valchiusa, troviamo un disegno raffigurante il paesaggio della cittadina provenzale nel quale spicca sulla sinistra un airone che stringe nel becco un pesciolino e poco più sotto la frase: transalpina solitudo mea iocundissima, cioè “la mia piacevolissima solitudine transalpina”. Recentemente è stata riconosciuta a Boccaccio la paternità del disegno, mentre il piccolo commento è di Petrarca. Rico, un po’ malevolmente, insinua che Boccaccio abbia lasciato sotto il disegno più di una linea perché probabilmente si aspettava di ricevere dal maestro un elogio consistente, insomma ben più lungo di una linea.
Un’altra fonte importante per comprendere la relazione tra i due scrittori sono senza dubbio le lettere, ovviamente in latino, che si sono inviati: sono arrivate fino a noi 33 lettere di Petrarca e 6 di Boccaccio. La sproporzione si deve al fatto che le epistole di Boccaccio avevano un carattere occasionale, mentre quelle di Petrarca erano pensate per essere raccolte in un libro. Una di queste lettere illumina piuttosto chiaramente le luci e le ombre di questa amicizia.
Nel 1373, quando Petrarca era già molto anziano, Boccaccio gli scrisse consigliandogli di lasciare da parte le fatiche letterarie per riposare. Petrarca gli rispose esaltando la dolcezza di quella fatica, che considerava una parte costitutiva della sua vita, e inoltre, per dimostrargli che di energie ne aveva ancora parecchie, gli mandò una sua versione latina della “Griselda”, una novella del “Decameron”, preceduta da una spiacevole lezione di letteratura in cui sottolinea sostanzialmente tutte le fragilità della sua scrittura. Tuttavia, è stato proprio grazie alla traduzione in latino di Petrarca che la fama del “Decameron” si diffuse in Europa.
Questi sono solo alcuni dei molti episodi che Rico, con rigore scientifico ma sempre col sorriso, ci racconta in questo volumetto per mostrarci i contorni di questo rapporto tutt’altro che lineare, ma forse proprio per questo ancora più appassionante.
Giulia Novelli