Pirandello, salvaci tu

Luigi Pirandello lo abbiamo incontrato, con molta probabilità, ai tempi del liceo, in un periodo in cui apprezzarlo e comprenderne appieno il pensiero era pressoché impossibile.
In primis perché la giovane età, talvolta, non permette di dedicare tempo e impegno interiore all’analisi attenta di se stessi e delle intricate relazioni con gli altri.
E in seconda battuta perché agli occhi di un adolescente il saggio Pirandello poteva sembrare un disfattista sempiterno che non offriva una soluzione ai mali della società di cui gli stessi uomini, insieme al caso, erano colpevoli.

Spesso, però, accade che ci si riavvicini ad uno scrittore del suo calibro in età più adulta, una volta scrollata di dosso la costrizione scolastica.
Allora lì, quando scegliamo consapevolmente di addentrarci negli spinosi meandri dei temi quali quello dell’identità, della negazione di questa, delle maschere e anche della follia, ecco che riusciamo ad amare la complessità di uno dei più importanti drammaturghi del ventesimo secolo.



Luigi Pirandello (1867-1936)

Pirandello è stato uno dei primi ad individuare lo specchio rigato di un’epoca di crisi morale, psicologica ed esistenziale; ha scovato i paradossi umani, polemizzando ed ironizzando con sottile amarezza, come solo lui sa fare, sul sistema delle convenzioni sociali entro cui l’individuo, allora come oggi, è costretto a vivere.
Perché la crisi dell’io è sempre in corso, anche nel 2020.
È la crisi dell’uomo moderno che si domanda quale sia il suo posto nel mondo e che lo porta a pensare ai classici quesiti esistenziali: Chi sono io? Quale delle infinite figurazioni di me stesso? E chi sono per gli altri?

“L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un “mio” dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest’idea non mi diede più requie.”
Così Vitangelo Moscarda in “Uno, nessuno e centomila” (1926), prendeva coscienza della distanza che vi era tra come lui si vedeva e come lo vedevano gli altri.

I romanzi di Pirandello rispecchiano quello che accade all’uomo contemporaneo, spesso restio a mostrarsi per quello che è, difficilmente limpido e puro nelle relazioni con l’altro. Oggi come allora l’umanità si trova a vivere frequentemente un alto grado di menzogna.
Pirandello pensa che l’uomo non sia in grado di capire né gli altri né se stesso, poiché ognuno di noi vive portando una maschera, emblema/ventaglio di personalità differenti.

Essere noi stessi implicherebbe accettare il peso del confronto, della critica, significherebbe mettere in discussione le proprie idee con il pericolo che vengano demolite.
Quindi l’uomo trova più facile e meno rischioso occultare il proprio volto dietro una maschera, rifugiandosi nella mediocrità.
Questa riflessione la troviamo in molteplici opere, ma probabilmente la manifestazione narrativa più acuta vive proprio in “Uno, nessuno e centomila”, il cui titolo è già di per sé assai esplicativo.
Uno perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche particolari.
Centomila perché l’uomo ha, dietro la maschera, tante personalità quante sono le persone che ci giudicano.
Ed infine Nessuno perché, paradossalmente, se l’uomo ha una miriade di personalità diverse è come se non ne possedesse nessuna, nel continuo cambiare non è capace di fermarsi al suo vero Io.

Pirandello sembra quindi suggerirci che capire quale sia la nostra identità più vera e profonda è come impelagarsi in abissi bui e, una volta preso coscienza di ciò, ci rendiamo conto che gli altri, in realtà, vedono altro in noi.
È come se ci attribuissero un’altra identità, spesso e volentieri distante da ciò che noi sappiamo o vogliamo sapere di noi.
In generale costruirsi un’identità forte, chiara e imperturbabile è un’ardua impresa perché, in quanto esseri umani, viviamo in una condizione di continua evoluzione e di conseguenza siamo soggetti all’inesorabile mutamento di ciò che ci sta intorno e quindi anche di noi stessi.
Pirandello ci ha dato gli strumenti per poter scavare dentro la nostra essenza, sollevando gli strati più superficiali e arrivando al nocciolo dell’involucro.
Ha fatto luce sulle innumerevoli piccole o grandi bugie che siamo costretti a dire (chi più chi meno) per sopravvivere.
Attraverso la sua prolifica produzione, con le sue novelle ed i racconti brevi, ma anche con i suoi drammi teatrali, ci ha fatto fare un bagno freddo nella prigione immaginaria che abbiamo minuziosamente costruito per noi stessi.

Tra identità e maschere

Pirandello ci ha sempre messi in guardia sul pericoloso gioco delle maschere.
Mattia Pascal, così come Vitangelo Moscarda, si perde nel triste e assurdo sistema delle maschere, assumendo identità diverse in situazioni diverse, vivendo vite parallele, per poi sperimentare sul finale l’amaro della sconfitta.

“Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.”

Uno scenario veritiero, che continua a far riflettere e allo stesso tempo a spaventare.
C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno.
Insomma, si salvi chi può.



Copertina de “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello,
Einaudi Tascabili Classici

Ma rincariamo la dose:

“Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.”
Lo scenario non è dei migliori, giusto?
Ma cosa accadrebbe se decidessimo di optare per un altro finale nella nostra vita?

Un finale diverso 

Posto appunto che Pirandello ci ha aiutati a capire cosa sbagliamo con tanto ardore, ci offre anche uno spunto di riflessione su come possiamo rimediare, anche se non in maniera del tutto immediata o esplicita.
Se lo leggiamo con attenzione, andando oltre l’evidente, capiremo che non è il disfattista che ci sembrava in passato. Perché dalla stessa penna è uscito anche un guizzo di positività:
“Sapete che cosa significa amare l’umanità? Significa soltanto questo: essere contenti di noi stessi. Quando uno è contento di se stesso, ama l’umanità.”

Il nostro finale, quindi, non deve essere necessariamente catastrofico come quello della stragrande maggioranza dei suoi racconti, anzi.
Nell’oceano di maschere e identità in cui siamo soliti navigare possiamo virare verso un’isoletta tutto sommato felice.
Una volta capiti i capisaldi della nostra anima, non resta che accettare i mutamenti e l’evoluzione che incontreremo per la nostra strada.
La nostra identità può cambiare anche in vista di desideri, passioni, paure che mutano e si trasformano.
E ancora, basta critiche verso noi stessi e gli altri, impariamo a giudicare di meno.
Tanto non si può conoscere mai davvero nessuno in maniera ineluttabile ed esatta (nemmeno noi stessi). Quindi potremmo provare a vivere eliminando le inutili menzogne, la dedizione esasperata che abbiamo nei confronti dell’apparire e non dell’essere.
L’uomo è un animale sociale, uno ζῷον πολιτικόν secondo Aristotele. In quanto animali sociali, credo che dovremmo imparare a vivere con gli altri senza provare a distruggere o a modificare la loro identità. O la nostra.
Più apertura mentale, più flessibilità e accettazione del cambiamento, più autenticità nei rapporti al fine di creare un’esistenza più armoniosa e piacevole.
Evitando la temuta pazzia pirandelliana come unico esito delle nostre lotte interiori ed esteriori.
Le maschere meglio abbassarle, chissà che poi la nudità del nostro volto non sia la chiave per sentirci finalmente bene.
In ogni caso, così è, se vi pare… 

Atena Forconi ©

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1 commento su “Pirandello, salvaci tu”

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