Quante persone siamo?

Questo articolo si deve necessariamente aprire in maniera inconsueta, ovvero porgendo sincere scuse al lettore. Non è una forma di falsa modestia, è questione di onestà intellettuale: l’apparente eloquenza del titolo è ingannevole e le righe che seguiranno non trattano di demografia. O meglio: forse sì, ma sicuramente in un’accezione molto particolare.

Un articolo pubblicato il 13 Dicembre 2017 su “Il Tascabile”, rivista on line della Treccani, ricorda un celebre caso di cronaca giudiziaria destinato a entrare nella storia della psichiatria: William “Billy” Milligan, ventiduenne originario di Miami Beach (Florida), nonostante abbia violentato tre ragazze in pieno giorno, viene assolto a causa della infermità psichica da cui è afflitto, il DID (Disturbo Dissociativo della Personalità). 
A causa dei numerosi e gravi episodi traumatici vissuti fin dall’infanzia, “la personalità di Billy si frantuma in ventiquattro personalità distinte, ognuna con le proprie caratteristiche e peculiarità”. Esse, già durante le prime fasi del processo, “iniziano a emergere” suscitando un sentimento di incredulità generale: i disturbi della memoria e dell’identità sono tanto gravi da non far ricordare a Billy nulla di quanto successo quando passava da una personalità all’altra (da un alter all’altro, in termini tecnici).



Una foto di Billy Milligan scattata durante il processo a cui fu sottoposto nel 1978

Come spiega la dottoressa Pesce intervistata da “Il Tascabile”, “il fatto che le diverse personalità abbiano sessi diversi e caratteristiche differenti è legato al tipo di esperienza psichica che viene rappresentata da quella personalità. Ad esempio: una personalità è identificata con un aspetto del genitore aggressore (con una voce e un’età), una personalità è identificata con un aspetto del bambino pauroso (con altra voce e altra età), una personalità è identificata con un aspetto materno accogliente (altro sesso e altra età), e così via”.

Senza soffermarsi ulteriormente su un caso così grave e sulle infinite domande che può suscitare, su una cosa si può essere sicuri: la follia è una degenerazione, una frantumazione, una perdita di unità dell’Io, tanto che gli psicologi che ebbero in cura Milligan introdussero un alter che potesse accogliere e coordinare tutti gli altri, il Teacher

La visione di coscienza unitaria e coerente a cui siamo abituati, per certi versi confortevole e rassicurante, è tuttavia una invenzione. Una invenzione geniale del popolo che più di tutti fu assillato dal problema della follia e che più di tutti cercò di dissodare un terreno solido all’interno della psiche umana: gli antichi greci. Per una completa narrazione di questa appassionante avventura intellettuale si rimanda al libro di Giulio Guidorizzi “Ai confini dell’anima. I Greci e la Follia” (Raffaello Cortina Editore, 2009), tuttavia qui ricordiamo un solo tassello del mosaico: se è vero che nella lingua di Omero – il più antico dei poeti –  non esiste ancora un termine/concetto che indichi una sede unitaria a cui ricondurre le manifestazioni dello spirito, allora le conseguenze sono di amplissima portata: la follia degli eroi omerici non può essere né una lenta degenerazione della struttura psicologica né una malattia cronica; semplicemente, “ogni improvviso mutamento di energia psichica è percepito come una sorta di follia provvisoria, cosicché si potrebbe arrivare a dire che la follia in Omero fa parte della normale percezione della esistenza”.

Copertina di “Ai confini dell’anima. I Greci e la follia” di Giulio Guidorizzi,
Raffaello Cortina Editore

Se Milligan fosse vissuto in Grecia ai tempi di Omero, come sarebbe stata interpretata la sua follia? Forse sarebbe stato il più straordinario tra i normali. Il problema – sia che si adotti una visione moderna sia che se ne adotti una arcaica e omerica – rimane comunque il medesimo: come spiegare tutte le manifestazioni della nostra interiorità? Possiamo ricondurle a un baricentro oppure no? La psicologia, la letteratura, la filosofia e le neuroscienze hanno variamente affrontato la questione che, come si può immaginare, è complicatissima. Queste righe, tuttavia, si concludono con un semplice invito: proviamo ad abbandonare visioni eccessivamente monolitiche di noi stessi; aboliamo ingenue espressioni quali “uomo tutto di un pezzo”; intraprendiamo un censimento interiore; scopriamo da quante caleidoscopiche sfaccettature siamo caratterizzati e lasciamo che ognuno di questi semi germogli, cresca e si relazioni con gli altri in un “delirante fermento”.

Giovanni Tavazza

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1 commento su “Quante persone siamo?”

  1. Senza necessariamente sfociare nella malattia psichica, che è un’altra questione, io credo che ognuno abbia più aspetti nella propria personalità, ma che solo facendoli convivere e accettandoli (e magari limitandone gli eccessi ove necessario) si possa vivere serenamente.
    Parlo da profano dell’argomento, ma da persona che ha comunque cercato di imparare qualcosa di sé.

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