La prima docu-serie italiana targata Netflix, “SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano”, ha avuto un esordio di tutto rispetto. Per i pochi che non ne avessero sentito parlare, si tratta di un documentario suddiviso in cinque episodi che racconta la storia di San Patrignano, la comunità di recupero per tossicodipendenti appollaiata su una collina del riminese, dalla sua nascita, avvenuta nel 1978 per opera di Vincenzo Muccioli, sino al 1995, l’anno della morte del fondatore.
Questa serie ha fatto molto discutere per varie ragioni il cui minimo comun denominatore è la complessità che gli autori della docu-serie e la regista, Cosima Spender, sono riusciti mirabilmente a mettere in scena. Partiamo dall’inizio.
San Patrignano è nata per riempire un vuoto istituzionale. Dove le istituzioni non erano presenti, non davano risposte al problema dilagante dell’eroina spacciata nelle strade delle nostre città dilaniate da lotte giovanili tra frange politiche estremiste, lì nacque il progetto di San Patrignano, che dura tuttora. Nessuno dubita del bene che ha fatto la comunità e Vincenzo Muccioli. Ha sicuramente salvato molte vite. Ciò che è stato criticato di San Patrignano e del suo fondatore sono alcuni metodi utilizzati con gli ospiti della comunità. Se un ospite infrangeva le regole di SanPa, per esempio scappando o sottraendosi all’autorità dei leader, veniva punito. La punizione più terribile, che è anche quella che portò Muccioli a essere condannato in primo grado dal tribunale di Rimini, per poi essere assolto in secondo grado, è aver recluso e segregato una ragazza, ospite della comunità, contro la propria volontà. Sappiamo che non fu un unicum: vari testimoni (tra l’altro nella serie in totale sono 25 gli ex-ospiti intervistati) furono reclusi, anche con catene, in scantinati e bugigattoli di San Patrignano.

Vincenzo Muccioli e la comunità di San Patrignano
[fonte: Netflix]
Questo fatto impressiona e sdegna, eppure alcuni ex ospiti intervistati non condannarono del tutto questi metodi ma li giustificarono, così come alcuni genitori e parte dell’opinione pubblica italiana. È luminosa la testimonianza dell’ex ospite e poi capo della comunicazione di San Patrignano, Fabio Cantelli, il quale con parole limpide ci racconta che ci sono momenti della vita, come quelli della dipendenza da droghe, in cui vita e morte sono talmente intrecciate che concetti come quello di “libertà” sono privi di senso.
Il valore e il fascino di questa serie è che le luci e le ombre richiamate nel titolo si mescolano continuamente e pertanto è molto difficile per lo spettatore formulare giudizi di natura manichea. È impossibile riuscire ad assegnare a quest’esperienza un segno negativo o un segno positivo, potersi schierare nettamente e senza indugio da una parte o dall’altra.
Vincenzo Muccioli
[fonte: Rolling Stone]
Per questo “SanPa” riesce a restituire la complessità della vita e delle persone che non si possono incasellare ordinatamente e catalogare rigidamente. Ogni esperienza umana complessa non si può ingessare. Il punto di vista dello spettatore varia e oscilla a seconda della testimonianza. Lo sguardo cambia nella misura in cui si assume il punto di vista di chi racconta. Questo è il pregio della serie che ricorda, nella costruzione e nella modalità della narrazione, “Wild Wild Country”.
Il problema centrale evocato fin dall’inizio in “SanPa” è questo:“per raggiungere il bene, è lecito qualsiasi mezzo?”. La San Patrignano degli inizi, come dicevamo poco sopra, ha salvato tante vite, ma l’avrebbe fatto anche con metodi non punitivi e non violenti? Certamente sì. È palese che oggi non sarebbe più accettabile usare questi metodi, anche se è altrettanto evidente che c’è stato un tempo in Italia in cui per certi versi lo era. C’è da chiedersi se abbiamo fatto i conti con questo tipo di modello educativo. “SanPa” è una sorta di tragedia moderna che si chiude proprio con la morte dell’eroe/antieroe Vincenzo Muccioli.
Giulia Novelli
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