Saper raccontare il dolore con leggerezza: Guido Cavalcanti

Guido Cavalcanti è stato un poeta eccezionale. Apparteneva a una delle famiglie notabili della Firenze del Due-Trecento ed era figlio di quel Cavalcante Cavalcanti che Dante mette all’Inferno perché aveva seguito l’opinione degli Epicurei, i quali “l’anima col corpo morta fanno”, cioè che non credono alla vita dell’anima dopo la morte. Lo troviamo, infatti, bruciante in un’arca nel X canto: più precisamente siamo nel sesto cerchio, nella città di Dite, dove sono puniti gli eretici.

I Cavalcanti erano una famiglia guelfa, cioè appartenente a uno degli schieramenti, dei partiti, in cui era divisa, o meglio lacerata, la Firenze comunale. Guido Cavalcanti sposò Bice, la figlia del capo dei Ghibellini (la fazione opposta ai Guelfi), Farinata degli Uberti, anch’egli posto da Dante nel X canto dell’Inferno. Si trattava evidentemente di un matrimonio politico.
Il partito dei Guelfi poi era ulteriormente diviso in due fazioni: Guelfi Bianchi e Guelfi Neri. Guido, che come Dante era completamente immerso nella politica, apparteneva ai primi ed era acerrimo nemico del capo dei Guelfi Neri, Corso Donati. Si sa che nel Medioevo la gente non se la mandava a dire e certe inimicizie sfociavano in vere e proprie minacce di morte. I cronisti raccontano che Corso Donati provò, invano, infatti a far uccidere da alcuni sicari il nostro Cavalcanti mentre si stava recando in pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Il pellegrinaggio però non fu portato a termine e pare che Guido si fermò presso Nîmes. Fu infine esiliato a Sarzana nel 1300 e morì pochi mesi dopo quando tornò a Firenze.

Cristofano Dell’Altissimo, Ritratto di Guido Cavalcanti (1552-1568)

Cavalcanti è descritto dai cronisti dell’epoca quali Dino Compagni e Filippo Villani come “giovane gentile”, “nobile cavaliere”, “filosofo d’autorità, non di poca stima, e onorato di dignità, di costumi memorabili, e degno d’ogni laude e onore”. Anche Giovanni Boccaccio lo loda in diversi scritti. Nel suo “Comento” alla “Commedia” di Dante (questo era il titolo originale dell’opera. L’aggettivo “divina” è stato aggiunto da Boccaccio, non dal suo autore) definisce Cavalcanti “un uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno”, “ottimo loico e buon filosofo”.

Tuttavia, l’elogio più articolato e consistente di Cavalcanti lo troviamo nel “Decameron”. Boccaccio dedica al poeta la nona novella della sesta giornata nella quale emergono dei tratti molto chiari e distintivi di Cavalcanti uomo e Cavalcanti poeta. Per chi non si ricorda la novella, la riassumiamo sinteticamente: Cavalcanti mentre sta camminando tra i sepolcri di marmo adiacenti a una chiesa viene accerchiato da una brigata di giovanotti festaioli che hanno intenzione di beffeggiarlo per la sua fama di pensatore oltretutto poco religioso. I giovani allora gli domandano provocatoriamente che cosa avrebbe fatto una volta scoperta l’inesistenza di Dio. Guido risponde: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra (cioè tra le tombe) ciò che vi piace” e con un abile gesto salta le tombe e si libera dall’accerchiamento della brigata. Ora, ciò che ha colpito principalmente Italo Calvino non è tanto la risposta verbale del poeta, ma il suo gesto, finemente descritto da Boccaccio in questo modo: “posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sí come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò”. Secondo Calvino questa leggerezza e leggiadria è l’elemento distintivo della poetica cavalcantiana. Calvino nelle sue “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, nella lezione dedicata alla leggerezza, mostra bene come la poetica di Cavalcanti sia tutta sospesa in un’atmosfera leggerissima e impalpabile.

I personaggi delle sue poesie, le quali per la maggior parte parlano di un amore straziante e doloroso, di esperienze vicine alla morte (parola molto frequente nell’opera del poeta), non sono persone in carne ed ossa, ma spiriti e sospiri. Guido Cattaneo nell’introduzione alla sua edizione delle “Rime” di Cavalcanti nota che su 52 componimenti la parola “sospiro”, in tutte le sue declinazioni, viene ripetuta 44 volte! Sembra che il mondo evocato da questi versi sia privo di gravità e che i corpi non abbiamo un peso specifico.

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Copertina  delle “Rime” di Guido Cavalcanti,
a cura di Guido Cattaneo (Giulio Einaudi Editore)

Anche quando in un sonetto il poeta si paragona a una statua o a un automa per il fatto di sembrare privo di vita, il risultato è spiazzante per la sua leggerezza. Vediamo il sonetto:

Tu m’hai sì piena di dolor la mente, 
che l’anima si briga di partire,
e li sospir’ che manda ‘l cor dolente
mostrano agli occhi che non può soffrire.

Amor, che lo tuo grande valor sente,
dice: “E’ mi duol che ti convien morire 
per questa fiera donna, che nïente
par che piatate di te voglia udire”.

I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,

che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’egli è morto, aperto segno.

Il testo, come possiamo vedere, è intriso drammaticamente di sofferenza. Una sofferenza, però, in certa misura, impalpabile. Nella prima terzina le immagini di elementi pesanti, rame, pietra e legno si avvicendano velocemente, dando un forte movimento alla composizione e, proprio per il fatto che sono intercambiabili, sorprendentemente non ne percepiamo il peso. Inoltre, anche in questa poesia sono presenti i sospiri a cui accennavamo poco sopra, che esprimono strazio e tormento senza appesantire l’atmosfera.

Leggiamo ora un altro sonetto per intravvedere i diversi espedienti di cui si serve Cavalcanti per ottenere questa levitas:

Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorsamente
quelle parole che vo’ avete udite.

Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente: 
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;

le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.

Or vi preghiàn quanto possiàn più forte 
che non sdegn[i]ate di tenerci noi, 
tanto ch’un poco di pietà vi miri.

Anche qui il poeta è distrutto, si trova a un passo dalla morte e l’unica cosa che gli rimane da fare è sospirare. L’elemento interessante di questo componimento è che la narrazione è affidata non alla prima persona singolare, come nel caso precedente, ma agli strumenti della scrittura: le penne e poi le forbici e i coltelli che servono per affinarle. Oltretutto, il vezzeggiativo con cui gli ultimi due strumenti sono designati (le cesoiuzze e ‘l coltellin) comunica un senso di lieve grazia seppur sia affidato proprio a loro il compito di raccontarci la disgrazia del poeta.

Cavalcanti dunque riesce a coniugare in sé due elementi difficilmente conciliabili: il dolore e la grazia, riesce cioè a creare una formidabile armonia tra la pesantezza del tema trattato e la leggerezza della parola e del verso.

Giulia Novelli

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