“The Social Dilemma”

Secondo le classifiche di Netflix, “The Social Dilemma” è uno dei docufilm più guardati negli ultimi tempi e solleva problemi etici riguardo al settore tecnologico in generale, un settore che è in continua evoluzione e cambia repentinamente.

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Ph. Yasuyoshi Chiba, “Straight Voice”, winner of World Press Photo 2020

Il documentario alterna interviste a ex-personaggi di Instagram, Facebook, Twitter, Google, con le scene di vita quotidiana dei membri di una famiglia apparentemente normale dei giorni nostri. Ci si accorge subito però che il nucleo familiare si comporta in maniera un po’ anomala ed esagerata, come se ci si trovasse catapultati in una commedia americana, a tal punto che ci si aspetterebbero anche le tipiche risate di sottofondo. 

La tragicomicità di scene surreali serve a sottolineare alcuni aspetti dell’innovazione tecnologica e forse invita a non prendere troppo sul serio la pellicola. Con un titolo del genere, infatti, ci si aspetta un documentario critico sui social media, che ne evidenzi i lati negativi (ad esempio il fenomeno chiamato “dysmorphia da Snapchat”, ossia la voglia di assomigliare ai filtri, oppure l’esaurimento nervoso, la dipendenza e la frustrazione) e i lati positivi (come l’umano bisogno di socializzare e l’importanza della condivisione), ma non è così. 

Il documentario è molto “sbilanciato” poiché non si concentra sui social media, ma sulle implicazioni della tecnologia in generale (o meglio dell’avvento di internet) sull’essere umano, sui suoi rischi e sul fatto che essa fin dalla sua nascita porti con sé necessariamente un lato maligno. Ecco spiegata l’angosciosa frase di benvenuto con cui si apre il documentario: “Nulla che sia grande entra nella vita dei mortali senza una maledizione”, citazione di Sofocle, non un tragediografo qualunque.

Ebbene, la storia dei computer nasce in tempi di guerra. Le prime macchine a computazione erano utilizzate per calcolare con precisione le coordinate e la traiettoria dei missili letali ed erano continuamente testati per armi e operazioni strategiche militari. 

The Social Dilemma

Ph. John Stanmeyer, Migranti dall’Africa sulla costa di Djibouti City alzano i loro cellulari nella notte nel tentativo di intercettare un segnale per connettersi con i parenti lontani

Secondo Harris, uno dei protagonisti, con la tecnologia abbiamo legato il significato stesso di comunicazione e cultura all’idea di manipolazione – “abbiamo messo l’inganno e la furtività al centro di tutto ciò che facciamo” sostiene -, ma in realtà questo non l’ha fatto la tecnologia, perché tale è già la natura stessa dell’idea di linguaggio. Il “good” e l’ “evil” sono purtroppo parte dell’essere umano stesso. L’apollineo e il dionisiaco sono in ognuno di noi, ma la responsabilità di come agire sta ad ogni individuo.
Tristan Harris, Google Former Design Ethicist e co-fondatore del Center for Humane Technology, ha scelto di schierarsi. Ci porta all’attenzione una domanda, che vuole risollevare gli spiriti critici assopiti: “Tutto questo è normale?” O siamo tutti sotto una specie di incantesimo?”. Ce lo dice un giovane uomo dai capelli rossi e la barba ordinata, un cavaliere di internet, definito come la coscienza della silicon valley, un maghetto che riusciva a ingannare adulti con dottorati di ricerca a 5 anni e che ha studiato al “Laboratorio di Tecnologia Persuasiva” alla Stanford University. 

Egli si accorge col tempo che esistono dei geni del cambiamento comportamentali che vogliono rendere la tecnologia sempre più persuasiva, come se fosse “magia”, in quanto i maghi furono i primi a comprendere una parte della mente umana di cui l’individuo non è a conoscenza.

Tra tutti comunque è Jaron Lanier (definito come il padre fondatore della realtà virtuale) il più critico sui social media, avendo anche scritto un testo dal titolo: “Ten arguments for deleting your social media accounts right now”.

Ironizza invece Roger McNamee (un investitore in capitale di rischio a Facebook): “Controlli lo smartphone prima di fare pipì al mattino o mentre fai pipì al mattino? Perché alla fine queste sono le scelte.”

L’inventore invece dello “scroll infinito”, Aza Raskin ci spiega come Google non sia solo un motore di ricerca, ma un modo per le società (quelle più ricche al mondo sono proprio le aziende tecnologiche) di competere tra loro per conquistare l’attenzione degli utenti. L’obiettivo è ottenere la maggior interazione possibile con le persone, perché è importante tenere a mente che “se non stai pagando per il prodotto, allora il prodotto sei tu” o, come specifica Jaron Lanier “è il graduale e impercettibile cambiamento del tuo comportamento e della tua percezione ad essere il prodotto”.

Effettivamente le grandi aziende tecnologiche monitorano le persone, raccolgono dati, osservano ciò che gli utenti fanno e non fanno online, come se volessero costruire, con le “caratteristiche” umane che esaminano, dei modelli sempre più accurati dell’essere umano, allenati a predire le nostre azioni attraverso degli algoritmi che hanno principalmente tre obiettivi:
1. Il coinvolgimento, engagement
2. La crescita, growth
3. La pubblicità, revenue

In realtà l’unico macro obiettivo risulta essere solo uno nella corsa capitalistica: il profitto, il successo e la buona riuscita.
Nel documentario questi algoritmi, in grado di manipolare il tutto all’occorrenza, sono incarnati da due gemelli robot, di forma umana.
Internet ha un funzionamento simile a quello delle slot machines, alimentato dal movimento del dito che può paradossalmente muoversi sullo schermo all’infinito. Non sai cosa troverai né se vincerai o meno, ma non riesci a distaccartene.

Ogni essere umano ha le sue dipendenze… certo però che paragonare internet alle droghe mi sembra eccessivo. Scegliamo noi come interagire con uno strumento: è vero, i social sono fatti per attirare in continuazione la nostra attenzione. 

Ma c’è qualcosa che possiamo fare per essere un po’ meno dei soggetti passivi: forse non tutti sanno che le notifiche si possono disattivare, che la suoneria può essere tolta, così come la vibrazione, la propria bacheca dei social network si può personalizzare, ogni pagina è diversa da quella di un altro e possiamo scegliere noi che cosa guardare e se una cosa ci fa male possiamo reagire. Non dobbiamo subire passivamente le evoluzioni tecnologiche. 

Ancora Harris sostiene che: Quando ci sentiamo soli abbiamo a disposizione un ciuccio digitale. Probabilmente è vero e sappiamo anche che non è la soluzione ai nostri problemi. Il punto è: lo sappiamo davvero? Ne siamo consapevoli? E’ tutta qui la differenza.

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Vignetta che rappresenta scherzosamente l’evoluzione dell’uomo fino all’avvento della tecnologia

Nel documentario viene detto, infine, che la colpa non è della tecnologia in sé e per sé, ma della sua abilità nel tirare fuori il peggio della società, perché crea caos nelle masse e mancanza di fiducia in se stessi. 

Harris non è totalmente d’accordo. Il modo in cui funziona la tecnologia non è una legge fisica: sono gli esseri umani ad aver creato gli algoritmi quindi sono gli essere umani che hanno la responsabilità di cambiarli, “sono le persone critiche i veri ottimisti”.

Riusciremo a cambiare il mondo? “We have to”. Dobbiamo.

Alessandra Busacca

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